martedì 9 giugno 2015

Suite Francese

Inizio: 1 maggio 2015
Fine: 8 giugno 2015
 

Non voglio fare una lunga premessa, ma due parole le voglio dire prima di recensire. Io, che nella vita mi sono trovata a leggere e studiare le peggiori barbarie del mondo (dalle dittature di tutta l’America Latina, alla guerra ed ai campi di concentramento in Sud Africa, al colonialismo sfrenato e feroce di tutta l’Africa Sub Sahariana, arrivando fino alla lontanissima Australia, segnata da crudeltà e barbarie inaudite) mai e poi mai mi ero accostata ad un romanzo sulla Seconda Guerra Mondiale. Ad essere onesti nemmeno sulla prima. Fin dalle scuole medie le poche immagini che ho visto sulla carta mi hanno impressionato al punto tale da crearmi un blocco emotivo. Alle superiori ho supplicato il mio prof di Storia di esonerami dalle visioni video e quando mi ha visto in lacrime davanti al primo filmato, non è andato oltre nel tentativo. Nemmeno leggerne, non posso nemmeno leggerne. Il solo pensiero di quella immane tragedia mi blocca. Io non tollero la barbarie e la crudeltà, non tollero le ingiustizie, le cattiverie, la violenza. Non posso vedere un filmato sui campi di concentramento senza sentirmi mancare (letteralmente) dopo pochi secondi. La mia mente non riesce a contenere tutto questo, non ce la faccio proprio a gestire l’emotività. Comincio a piangere e a stare male.

“Non sai stare al mondo” direte voi, “vero, forse avete ragione”.

Resta di fatto che in questo momento di profonda crisi e tristezza personale ho deciso di leggere questo libro. Non sapevo cosa aspettarmi ed avevo timore di stare male. Quel male che ti bastona ma non ti finisce del tutto, perché sai che non puoi farci niente, la storia è storia, ma non l'accetti. Invece ho scoperto che Irene, non solo non inscena scene troppo crudeli, ma racconta di un’epoca più che della guerra. Perché come dice lei stessa nei suoi appunti “della guerra ci si dimentica”. Povera Irene, quanto ha ragione!
La storia dovrebbe insegnare e lo fa, ma noi siamo tutti sordi e non impariamo mai. Ed ora, che la generazione di nonni e anziani che la guerra l’ha vista e l’ha vissuta sta scomparendo… io ho più paura che mai. Perché nessuno di noi sa cosa significhi sentire un allarme aereo, una bomba che esplode, non sa cosa sia la fame, il freddo, la paura che non ti lascia mai… poveri noi. Che tutti le anime vittime di guerra ci proteggano.

Parigi. 10 Giugno 1941. Oramai non c’è più molto tempo, i tedeschi stanno per invadere la capitale francese ed i bombardamenti potrebbero cominciare da un momento all’altro. L’allarme è dato e bisogna fuggire. Chi ha sentito odore di guerra se n’è andato da tempo, qualcun altro sta preparando frugali bagagli, qualcuno, impavido non partirà mai. Charlotte Pericand, moglie di Adrien Pericand, sta ultimando con ritardo le ultime cose. Lei, il suocero ed i bimbi più piccoli (Emmanuel, Jacqueline e Bernard, rispettivamente 1, 8 e 9 anni) si stanno dirigendo in Borgogna, a casa della madre di Charlotte. Il diciottenne Hubert li seguirà in bicicletta, mentre il figlio maggiore, Padre Philippe, si tratterrà per accompagnare personalmente i poveri infelici dell’Opera dei Piccoli Residenti del XVI in un luogo prescelto a circa cinquanta chilometri dalla sua parrocchia di montagna. Anche Adrien si tratterrà a Parigi. Lo scrittore Gabriel Corte non è felicissimo di non poter accendere le luci in piena notte per scrivere, questa storia stava diventando un incubo e l’idea, il suggerimento di Jules Blanc (membro della presidenza del Consiglio) di lasciare Parigi è anche peggio; pe fortuna Florance ha pensato a tutto ed ha preparato una valigia con le cose necessarie emesso anche i suoi preziosi manoscritti nella cappelliera. I coniugi Michaud, recatisi in banca di lunedì avevano scoperto che il direttore Corbin intendeva trasferire tutto nella filiale di Tours ed aveva deciso di caricare tutti i documenti sulla sua macchina e viaggiare insieme ai Michaud. Quanto meno non avrebbero dovuto separarsi, loro, che come altri migliaia di parigini avevano il figlio, Jean-Marie al fronte. All’ultimo momento però sono rimasti senza passaggio, scalzati dall’amante di Corbin. Anche Charles Langelet è stato abbandonato, ma dai suoi domestici (che sono fuggiti); lui sta preparando le valige con lo stretto necessario ed anche se dice a tutti di non temere né guerra né morte, si prefigge di raggiungere il confine spagnolo, valicarlo, arrivare  a Lisbona ed imbarcarsi. Le stazioni sono state sprangate, i taxi sono rimasti senza benzina, chi ha un mezzo lo sta usando per scappare (forse caricando amici e parenti), tutti gli altri, disperati, stanno andando a piedi, lasciandosi Parigi alle spalle. Comincia così l’esodo. Chi va verso Tours, chi verso Orléans, chi cerca di spingersi il più lontano possibile; i bombardamenti cominciano e ben presto Padre Philippe deve scendere dal camion insieme agli orfanelli per lasciarlo ai militari che devono trasportare i feriti. Tra i feriti c’è anche Jean-Marie, che per un soffio non incrocia Jeanne e Maurice, i suoi genitori. È ferito, in modo grave e viene lasciato in una casa alle cure di alcune donne. La situazione diventa sempre più critica: le cittadine di provincia vengono prese d’assalto dai profughi che hanno fame; non c’è più nulla per nessuno. La situazione con il passare delle ore può solo peggiorare, la guerra non guarda in faccia nessuno, anche se, chi è disposto a pagare, ha più possibilità di sfamarsi e riposare comodamente. Le morte però è la morte e contro quella a nulla servono i soldi.

Lucile Angellier vive con la suocera. Sono ricchi, gli Angellier, hanno una tenuta a Bussy da fare invidia, ma la tragedia si è abbattuta sulla famiglia da quando il figlio Gaston è partito per la guerra e si ignora dove sia. La nuora, Lucile, è sempre troppo o troppo poco affranta per la sorte del marito, così la vecchia Angellier non fa che sfiancarla con continui rimproveri. Inutili ed ingiusti, tanto più che quel prode figlio ha tradito la moglie svariate volte e da molto tempo intrattiene una dispendiosa relazione con un’amante… interrotta solo dalla guerra. Lo sconcerto raggiunge l’apice quando viene reso noto che un tedesco abiterà nella casa di Gaston: già, l’invasore, il nemico, il tedesco, l’usurpatore, entrerà in quella casa e ne occuperà le stanze, ne godrà a fondo come fosse sua. Perché ora che i tedeschi hanno occupato la zona (e il resto di Francia) è evidente che necessitano e pretendono case, letti e tavoli imbanditi. Nonostante non si possa dir di no, la signora Angellier è pronta a tutto pur di dimostrarsi altera, fiera, contrariata e scandalizzata per quella disgustosa invasione. Bruno von Falk prende così posto a casa Angellier, più alto è il grado, migliore sarà l’alloggio. A lui quindi tocca la casa di Gaston e la sua famiglia. Egli, come molti altri tedeschi, è beneducato e ben disposto ad una pacifica convivenza: non ci si può dimenticare la guerra in corso, ma si può convivere cercando di non darsi troppo fastidio. Molte donne in paese, prive dei propri mariti e senza giovani a disposizione, intrattengono relazioni più o meno amichevoli con i tedeschi. Certo non subito, ma con il tempo ci si abitua a quei ragazzi biondi, simpatici e stranieri. Loro che si sforzano di imparare qualche parola di francese, qualche complimento, che regalano ancora fiori e sfiorano mani. Anche Lucile, suo malgrado, si sente attratta da Bruno, che insistentemente (ma dignitosamente) cerca di risvegliare il suo interesse, pur avendo lui una moglie che lo attende a Berlino e lei un marito dall’altra parte della barricata. Un sentimento nascosto ma non troppo, contraddittorio, dolcissimo e commovente segna tutta la seconda meravigliosa parte di questa fantastica opera incompiuta.

Non c’è molto altro da dire. Irene aveva una grazia nello scrivere davvero eccellente, sarebbe stata un’opera meravigliosa, colossale, un monumento ad un’epoca. Ma non ha potuto terminarla. E il mio pensiero va a quanti di loro avevano un dono, un talento, che non hanno potuto offrire al mondo. Quanti di loro sarebbero stati Premi Nobel o scienziati famosissimi, geni, musicisti, scrittori e artisti. Non che importi, perché per me erano persone che meritavano di vivere la loro vita, a prescindere da quello che avrebbero fatto. Tuttavia, nella mia testa, mi ripeto: quanta umanità gettata via!

lunedì 8 giugno 2015

La Meccanica del Cuore


Inizio: 2 giugno 2015
Fine: 3 giugno 2015


Comincio con una premessa: non mi sono mai piaciute le favole, le fiabe, insomma le storielle a lieto fine che si raccontano ai bambini e che spesso continuano a far sognare le persone anche da adulte. Io e i sogni abbiamo un rapporto strano e non è questa la sede per dilungarmi in merito. Tuttavia mi sono accostata volentieri a questo libro e non mettetevi a ridere per il motivo. Mi sono imbattuta per caso in un post, su Twitter, che faceva una specie di oroscopo per lettori. Incuriosita ho letto il suggerimento per lo Scorpione et voilà, mi hanno assegnato la Meccanica del Cuore. Mi son detta “Ma si Elena, vediamo come va”. È andata. Non saprei dirvi se bene o male, intanto è andata. Diciamo che in qualche modo mi ha fatto rivivere uno stato d'animo particolare, nonostante io lo viva quotidianamente ormai; l'ho percepito come accentuato, mi ha spinto alle lacrime ma purtroppo non è stato catartico. Magari non era questo l'intento, magari non sono pronta io... Mi sono ritrovata ad avere ancora 12 anni quando per la prima volta vidi Edward mani di forbice. Il mio non fu un incontro felice, per nulla proprio. Non amo particolarmente Tim Burton e quel film mi sconvolse non poco, considerando che all’epoca dei fatti avevo una stanza identica a quella della protagonista (con tanto di specchio che inquadrava il letto retrostante) e per settimane continuai ad avere l’ansia. Questo libro potrebbe averlo scritto lui, o averlo ispirato in qualche modo. Ora, io non amo le favole perché mi ritengo realista, ma a mio parere se realizzi una fiaba drammatica, stai mancando l’obiettivo - e non apro parentesi sulla differenza tra favola e fiaba! - stai dimenticando il tuo pubblico per eccellenza: i bambini. Se vogliono sognare, lascia deciderlo a loro (mi si perdoni l’enfasi!) ma dagli uno strumento con cui farlo, qualora volessero. Ad ogni modo La Meccanica del cuore è esattamente così, una fiaba drammatica in chiave moderna (alle volte un po’ troppo) e quasi più per adulti che per bambini. L’intento di Malzieu non mi è stato chiaro nemmeno alla fine, quindi lascio a voi l’ardua sentenza!



Edimburgo, Scozia. Nella notte più fredda del 1874 viene al mondo Little Jack. Nasce nella casa in cima alla collina dove la dottoressa Madeleine aiuta chi altro aiuto non ha; emarginati, donne sole, prostitute, vagabondi, tutti trovano conforto e aiuto da colei che i più considerano alla stregua di una strega. Già, una strega, perché solo un essere demoniaco può aggiustare le persone rotte e malandate. Così, quando Jack nasce con il cuore completamente ghiacciato, Madeleine non si scompone più di tanto e per salvargli la vita gli impianta nel petto un orologio a cucù. Abbandonato dalla madre, Little Jack cresce con le amorevoli cure di Madeleine e degli strani ospiti itineranti della sua casa, come Anna, Luna ed Arthur con la sua colonna vertebrale musicale; gli anni passano ma nessuno lo vuole, altri bambini vengono adottati mentre da lui fuggono, inorriditi alla vista del cuore cucù, tutti i genitori bendisposti. Jack sa di essere diverso, ma non capisce perché la gente non possa accettarlo nonostante la sua evidente diversità, soffre, si sente rifiutato, solo ed abbandonato, così, quando il piccolo ha cinque anni, la dottoressa Madeleine decide di tenerlo definitivamente con sé. La vita scorre relativamente tranquilla, fino a quando quantomeno Jack non comincia a manifestare una sana voglia di vedere altro, oltre alla casa in cui vive. Dopo anni di dinieghi finalmente per il decimo compleanno, Madeleine acconsente a fare un giro in città con Jack. Il bambino è rapito da qualsiasi cosa, qualsiasi rumore e colore, dalle forme delle cose e delle persone. Ma tutto si eclissa quando scorge una piccola cantante che sbatte contro le cose perché non porta gli occhiali. Il suo cuore impazzisce, il cucù esce impetuosamente dalle bende e dalla camicia, spaventando tutti i presenti. Madeleine lo trascina nuovamente in cima alla collina, a casa. Lei ci prova a mettere in guardia Jack dalle emozioni e dall'amore: il suo cuore è troppo fragile, troppo delicato per sopportare questi scossoni, sarà meglio che si tenga dunque alla larga da molte cose. Ma il danno, oramai, è fatto. Jack vuole a tutti i costi ritrovare la piccola cantante; si iscrive persino a scuola nella speranza di incontrarla. Al suo posto incontrerà invece Joe determinato a far rimpiangere a Jack sia la decisione di andare a scuola sia, peggio ancora, l'aver chiesto della bellissima Miss Acacia. dopo tre lunghissimi anni di soprusi Jack decide di affrontare Joe, ribellandosi alle sue angherie. entrambi hanno passato il segno però e Jack è costretto a fuggire in gran segreto da Edimburgo. Meglio così: andrà a cercare Miss Acacia in Andalusia, a Granada. Comincia qui un viaggio rocambolesco che lo porterà oltre i suoi limiti, verso un futuro ignoto si, ma che ha molto del passato.
Miss Acacia, rincorsa su e giù per la Spagna diventerà il suo grande amore e poi di nuovo la sua croce, drammaticamente, fino alla fine. Insieme a lui Georges Melies, splendido personaggio realmente esistito, che si fa carico (nell'immaginazione di Malzieu) della cura del cuore di Jack: Madeleine gli aveva detto infatti di affidarsi ad un orologiaio ma non ad un dottore, che non avrebbe saputo aiutarlo né guarirlo.
Georges è l'amico ideale, il compagno di viaggio perfetto, insostituibile nella sua capacità di vedere Jack per ciò che è, esattamente come solo Madeleine sapeva fare. Ma proprio perché non è lei, Georges è anche in grado di vedere ciò che Madeleine ha sempre voluto ignorare...

Onestamente non so che dirvi. Non posso dire che non mi sia piaciuto, ma... nemmeno che mi sia piaciuto veramente. A prescindere dai personaggi e dal contesto vi sono moltissime chiavi di lettura. Io ne ho una personale, che dirò nel caso qualcuno la volesse sapere, ma che non scriverò qui per non influenzare nessuno!
Siamo a giugno, fra poco inizia l'estate, è breve, costa anche poco.. leggetelo!


 



domenica 7 giugno 2015

I misteri di Chalk Hill


Inizio: 3 giugno 2015
Fine: 4 giugno 2015
Ad essere onesti mi ha catturato la copertina. Mi succede di rado (ultimamente più spesso a dire il vero) di scegliere un libro dalla copertina, ma questa volta era troppo espressiva. E non appena ho avuto conferma che il periodo storico fosse quello al quale l’immagine rimandava, l’ho comprato. Io non ho letto Jane Eyre, quantomeno non ancora, perché mi sento un po’ in vergogna ad ammetterlo, sento la laurea in lingue e letterature ribellarsi. Non mi piace fare paragoni tra autori ed epoche, ma se dovessi darvi un’idea il più verosimile possibile, vi dire che questo libro è un delizioso… cocktail: una parte di Jane Austen, una mezza di Ann Radcliffe, una spruzzatina di Conan Doyle con un retrogusto alla Tracy Chevalier. Me lo immagino questo calice ghiacciato, con un liquido di un bel rosso scuro ciliegia, tendente al nero del mirtillo, rinfrescato dalla menta, con quella sua bella fogliolina verde.

Detto per inciso: lo adorerete.

1890 Dover, Inghilterra. Charlotte Pauly sta attraversando la Manica ricca di timori e nuove speranze. Guarda alla costa attraverso la foschia domandandosi cosa ne sarà di lei che è stata così coraggiosa da abbandonare Berlino e la sua patria per andare a fare l‘istitutrice nel Surrey, a Chalk Hill. Grazie alle ottime referenze ha trovato velocemente impiego presso la casa Sir Andrew Clayworth, che sembra particolarmente esigente nell’educazione di sua figlia Emily, di soli otto anni, la quale attraversa un periodo difficile, avendo perso la madre da poco più di cinque mesi. Un impedimento improvviso bloccherà Charlotte in quel di Dover per una notte, trovando ospitalità presso la casa della signora Ingram. E quella strana notte è solo l’inizio; la mattina successiva Miss Pauly raggiunge la stazione di Dorking e da qui, in carrozza arriva alla bellissima tenuta di Chalk Hill. La casa è gestita impeccabilmente dai domestici ed Emily, con sua sorpresa, ha ancora la tata. Nora infatti non è stata allontanata a causa della morte di Ellen, evitando di causare altri traumi alla piccola. Ma c’è qualcosa in quella casa, qualcosa nei domestici, in Mrs Evans (la governante) ed in Wilkins (il cocchiere) che non torna. Sembrano custodire segreti inconfessabili.

1888 Londra. Tom Ashdown ha perso la moglie e la sua vita si è decisamente fermata. Senza Lucy nulla sembra avere più importanza. Alle volte gli sembra di percepirla seduta sulla sua sedia. intenta a ricamare nell’angolo mentre lui scrive recensioni ed articoli per i giornale. Ovviamente però, quando si volta, lei non c’è. Inaspettatamente riceve la lettere di un caro amico, John, che ha bisogno del suo aiuto. La cognata, Emma, sembra essere vittima di un ciarlatano, un tale di nome Belvoir. Egli afferma di poter parlare coi defunti e continua a spillarle danaro consegnandole preziosi messaggi del fidanzato Gabriel, morto mesi prima in un incidente. Loro si si augurano che lui, possa ad partecipare una seduta e poi scriverne sul giornale, smascherandolo. La strada che intraprende, non senza riserve personali e timori, lo porterà a collaborare con un gruppo di scienziati, la Società per la ricerca psichica, capeggiata da Henri ed Eleanor Sigdwick.

A Chalk Hill Charlotte deve sgomitare non poco per imporre la sua figura di istitutrice. Emily è una bambina meravigliosamente intelligente e collaborativa, tuttavia in casa vige un certo ostruzionismo. Il nome di Ellen ed in generale nulla che la riguardi può essere nominato; nessuno può parlare di ciò che è successo quel giorno al fiume Mole e Sir Andrew si mostra particolarmente rigido, freddo e irremovibile; Wilkins quasi non le parla più e Mrs Evans è apertamente ostile. Inoltre Nora, la tata, timorosa di essere scalzata dalle grazie di Emily, fa di tutto per sottrarre la bambina all’istitutrice. Nonostante le avversità Charlotte riesce a mettere la sua posizione in chiaro ed a cominciare il suo lavoro. Trascorrono assieme momenti spensierati, fanno passeggiate e piccole gite, oltre a studiare quotidianamente. La serenità della piccola però è costantemente messa a prova da incubi notturni, accompagnati da fenomeni strani (finestre aperte, macchie di umido, foglie sulle scale) che portano Miss Pauly a sospettare che Emily soffra di sonnambulismo. I suoi incubi, i suoi momenti di assenza, nei quali, seppur desta, sembra essere lontanissima con la mente, potrebbero derivare dalla difficoltà di elaborare un lutto (quello della perdita della madre) dato che il padre le ha fin da subito impedito di farlo. Charlotte, dopo aver cercato informazioni senza ottenere alcuna risposta decide di chiedere in giro. Tutti sono riottosi a raccontare della tragedia di Chalk Hill, ma alla fine appare chiaro che Lady Ellen si sia tolta la vita gettandosi nel fiume. Tutti la ricordano come una madre estremamente premurosa ed affettuosa con Emily, della quale si è sempre occupata personalmente (chiaramente controcorrente rispetto alle usanze). Perché mai una donna così giovane, benestante ed innamorata della figlia dovrebbe suicidarsi? Miss Pauly intuisce che la verità potrebbe essere molto più scomoda e nascosta di quello che appare. Nonostante i battibecchi con Sir Andrews e qualche scaramuccia con Nora, la vita a Chalk Hill sembrerebbe trascorrere abbastanza bene, se non fosse per gli episodi notturni di Emily. Qualcosa evidentemente disturba il sonno della bambina che comincia, seppur con timore, a rivelare di parare con la mamma. E non solo: Emily giura che sua madre la va a trovare quasi tutte le notti e che presto la porterà via con sé… le allarmanti rivelazioni della bambina, alcune informazioni delle quali non avrebbe potuto realmente disporre spingono suo padre a chiamare in causa, segretamente,  la Società per la ricerca psichica. Thomas Ashdown dovrà stabilire se la piccola Emily abbia o meno poteri paranormali. In alternativa, la piccola potrebbe avere una malattia mentale. Nulla di buono incombe su Chalk Hill. E Charlotte è esattamente al centro della tempesta che sta per scatenarsi.

Non vado oltre, perché proprio non si può e vi ho già detto molto di più di quanto avrei dovuto (ma non voluto!). questo libro è davvero avvincente e per nulla scontato. L’epilogo ha dell’incredibile, non lo avrei mai nemmeno preso in considerazione e pertanto mi ha completamente sbalordito. Leggetelo, a me è durato poco meno di ventiquattro ore tra le mani, scommettiamo che ci metterete anche meno?

Un giorno questo dolore ti sarà utile


Inizio: 5 giugno 2015
Fine: 7 giugno 2015
Ho letto il titolo e mi è scappato da ridere. Una risata amara di chi non crede più. Di chi ha capito che le cose vanno come devono e basta, alla faccia del merito e dell’impegno. La mia migliore amica, però, mi ha un po’ spinta con quel fare da “che male potrà mai farti”, così, complici gli sconti da Giunti, l’ho preso. Non mi ha fatto male e non mi ha fatto bene, però mi è piaciuto molto. Sono d’accordo con Valeria Parrella che, in quarta di copertina, ha scritto che il personaggio di James resterà nella memoria. Lui non rappresenta il classico diciottenne, anzi rappresenta una fetta molto esigua di diciottenni; mi spiego meglio: è una fase un po’ particolare della vita di ognuno, quel passaggio forzato tra l’adolescenza e la vita adulta. Spesso sorgono contraddizioni negli individui, uno spirito di avversione verso tutto, di ribellione, di isolamento, di eccessi… tuttavia una piccolissima parte di ragazzi si sente esattamente come James. Introspettivi al limite, eccezionalmente intelligenti, incompresi e … inutili. Quell’inutilità tipica di chi non sa bene cosa fare della propria vita. Scontrosi, con un pizzico di cattiveria, di dispetto per meglio dire. E qui, secondo me sta la forza di questo personaggio eccentrico nel suo sentirsi banale e eccezionale nelle sue riflessioni, non così impossibili per un diciottenne, semplicemente rare (anche lessicalmente parlando). Non ho idea se James alla fine vi risulterà sgradevole o vi piacerà… ma credo che indubbiamente vi lascerà qualcosa.

New York, 2003. James Dunfour Sveck ha diciotto anni e le idee decisamente chiare. Non gli importa di nulla e non gli va a genio niente, a partire dalle persone. Ma attenzione: questo senza alcuna accezione negativa, tutt’altro! Un vivi e lascia vivere, diciamo, con un tocco di sociopatia da incompatibilità. Perché James ha una profondità tutta sua e la banalità dei più lo sconforta, lo offende e lo deprime. A partire da quella sua (non tanto ordinaria) famiglia. Sua madre Marjorie (che ha già due divorzi alle spalle) è rientrata dopo soli quattro giorni di luna di miele perché Barry, neo (e prossimo ex) marito le ha scucito di nascosto la bellezza di 3000 dollari in una sola notte, suo padre Paul Sveck, invece sembra non dargli tregua parlando dell’università e della possibile omosessualità di James; sua sorella Gillian vive in un mondo tutto suo scaturito, in parte, dalla relazione che ha con uno dei suo professori all’università, Rainer Maria Schultz. Senza troppi giri di parole James ci introduce nel suo mondo, parlando in prima persona. Ci porta con sé nella Galleria d’arte moderna della madre, gestita in modo abbastanza autonomo da John Webster e dove anche lui lavora; ci accompagna al quarantanovesimo piano a pranzo con il padre sempre così attento a tutto da non accorgersi di niente; ci porta a conoscere Nanette, la nonna di ottantanni che lui semplicemente adora, l’unica assieme a John che James stimi e con la quale parli volentieri. Eh già, perchè lui, di parlare, solitamente non ha voglia. Non ama farlo tanto per dar aria alla bocca: se uno parla deve avere qualcosa di interessante da dire, diversamente tanto meglio sarebbe che tacesse. Non mette in voce i pensieri anche perché non esiste un canale perfetto e diretto che li renda come realmente sono: nella comunicazione il linguaggio mentale viene tradotto e ciò che è tradotto non è mai uguale all’originale. Non parla, non racconta di sè James, non sembra avere amici, non esce (se non per portare fuori Mirò, il cane), non va dove normalmente andrebbe un diciottenne, non ha interesse per nulla che non siano l’arte o la lettura e soprattutto non è felice. Non sa nemmeno lui quale sia motivo, ma, pur facendo ciò che desidera, non è soddisfatto. La situazione precipita durante un viaggio organizzato a Washington, al quale deve partecipare per un concorso nazionale. Lui, che aveva fatto di tutto per esserne escluso, scrivendo un tema a dir poco politically uncorrect, si ritrova invece ad essere scelto e spedito negli uffici governativi in gita. Impossibilitato a reggere oltre il terzo giorno, semplicemente scappa, prende una stanza in un albergo e tanti saluti. La goccia ha fatto traboccare il vaso. James vince così un biglietto di sola andata per la psichiatra Adler, che come tutti gli altri sembra non avere alcun tipo di influenza su di lui, l’unico risultato, al massimo è quello di indisporlo, irritarlo e farlo sentire un bambino all’asilo. Non è che tutto sia da difendere in lui: James non si sforza di andare d’accordo con gli altri, di socializzare, di conformarsi; spesso sottovaluta i sentimenti degli altri e il dolore che le sue azioni possono causare. Insomma, è il classico diciottenne problematico, sotto questo aspetto.

Eppure mi è piaciuto. Mi è piaciuto moltissimo, sia lui che il libro in sé. Ho letto molte recensioni negative, ma credo che il libro sia molto meno banale di quanto non possa sembrare. Forse bisogna avere l’attitudine giusta, lo spirito giusto, o forse semplicemente basta essersi sentiti nella vita un po’ come James. Cosa che a me è capitata parecchio e ancora molto spesso capita. Essere incompresi, talmente tanto spesso che alla fine non si ha nemmeno più voglia di spiegarsi e si diventa anche un po’ psicosnob… della serie “tanto nessuno mi capirà mai”. È triste da dire, ma è assolutamente vero: perché la maggioranza delle persone ha bisogno di mettere gli altri in boccette, di etichettare stili e comportamenti, forme di pensiero e di vita, di farli rientrare in schemi preconcetti (con i preconcetti che cambiano di secolo in secolo ma sempre preconcetti sono) perché diciamocelo è la natura umana che ce lo impone. Quello che non possiamo capire e classificare ci spaventa. Ma perché? Alle volte non basterebbe solo essere? A quanto pare no. E questo è il male di James, dal quale forse non guarirà mai. Voglio lasciarvi con una frase che ho trovato bellissima e molto significativa:

Sono rimasto zitto. Aveva ragione e lo sapevo, anche se questo non cambiava nulla. La gente pensa che se riesce a dimostrare di avere ragione l’altro cambierà idea, ma non è così”.