martedì 25 agosto 2015

Pantani è tornato: il complotto, il delitto, l'onore.

Inizio: 6 luglio 2015
Fine: 12 agosto 2015

Qualsiasi cosa si voglia dire dopo aver letto questo libro, rimane un’unica certezza a riguardo: è una lunga denuncia, chiara, malcelata e assolutamente provocatoria. E meno male che è così! Viste tutte le cose contro le quali Davide De Zan è andato a sbattere in dieci anni, direi che questa lunga denuncia è quantomeno un atto dovuto, Pantani o meno. Una atto dovuto nei confronti della legge, che ha fallito e un atto dovuto nei confronti dell’uomo, che si è trovato invischiato in tutto questo. Il perché, probabilmente, non lo sapremo mai. Prima di cominciare però, vi vorrei dire cosa non ho trovato. A parte qualche ricordo commovente del Pantani uomo, disponibile, gentile, affettuoso e molte riflessioni dello stesso Davide, non ho trovato Marco Pantani dal 1999 al 2004. Trovo ben descritti i fatti di Madonna di Campiglio e di Rimini… ma di Marco Pantani ‘99/04 nada. Magari gli affezionati non ne hanno bisogno, ma questo libro è fatto per chiunque voglia vederci chiaro in una vicenda che di chiaro ha ben poco, e, forse, senza speculare (De Zan che specula su Marco Pantani proprio non ce lo vedo) si poteva anche dare qualche informazione in più. Chi meglio di lui poteva spiegare, senza esagerare nei dettagli? Invece non lo ha fatto e, questa, a mio parer, è una mancanza… e nemmeno tanto piccola. Comunque, per amore di chiarezza ed ordine, il libro verte su due macro argomenti: l’arresto di Pantani a Madonna di Campiglio ed il conseguente ritiro dal Giro d’Italia (ormai praticamente vinto) del 1999 per un’accusa di doping e l’omicidio (perché omicidio fu) di Marco, a Rimini, nel residence le Rose, il 14 febbraio 2004. Attraverso dieci anni, partendo da una promessa a mamma Tonina, Davide De Zan raccoglie informazioni e testimonianze assieme all’avvocato (e poi amico) Antonio De Rensis, difensore della famiglia Pantani, che porteranno nel 2014 alla riapertura delle indagini per l’omicidio e non il suicidio di Marco Pantani. Se venisse dimostrato che Marco fu ucciso perché “scomodo” si potrebbe anche risalire al mandante della scandalosa messa in scena dell’ematocrito alto a Madonna di Campiglio, volutamente alterato da qualcuno, affinché Pantani fosse fuori dai giochi. Perché come dice De Zan, a Madonna di Campiglio hanno ucciso il campione, a Rimini hanno ucciso l’uomo.

Essendo quella del buon Davide un’indagine a tutti gli effetti, non ha molto senso che io la sintetizzi. Non saprei cosa dirvi e cosa non dirvi. Tutto è talmente importante, ogni tassello, che son sicura: commetterei degli errori. Tuttavia farò del mio meglio e per non peccare nei confronti di De Zan, apporrò tra parentesi quadre tutto ciò che so o che ho dovuto colmare e che lui non dice, vedendo di fare un po’ di luce anche per voi.

Devo decidere, perché non è semplice da fare, se questo libro sia stato scritto dal giornalista, dall’amico o da entrambi. Fondamentalmente propendo più per l’amico, che non per il giornalista, proprio per alcune mancanze che un giornalista non si sarebbe assolutamente concesso. Con questo non intendo dire che De Zan sia stato di parte o fazioso, assolutamente no; espone i fatti con chiarezza, porta prove, pareri, spiega minuziosamente come sono state fatte le indagini (in modo scandaloso!!). Depone assolutamente per la verità. Non nega mai che Pantani abbia preso o fatto uso di droga la mattina del 14 febbraio 2004, o la notte precedente la sua morte, semplicemente dimostra come risulti totalmente assurda la ricostruzione fatta dalla polizia. Però questa cosa, ad esempio, cioè che non spieghi perché Pantani fosse arrivato a abusare della cocaina, mi ha disturbato parecchio. Mi è sembrato di non potere capire a fondo, di non essere messa al corrente di tutto. Ad ogni modo ho cercato di calarmi nei suoi panni e di comprendere che lo scopo del suo lavoro è stato fin da subito quello di verificare che non esistesse un’altra verità, cosa che effettivamente esiste eccome. A pensarci bene, al fine ultimo del libro, al lettore non interessa se Pantani abbia fatto o no uso di droga nella sua vita; quello che semmai è utile e giusto è sapere se la legge abbia effettivamente fatto fino in fondo il proprio dovere… e questo non perché Pantani è Pantani, ma perché Pantani è un uomo normale e la legge è uguale per tutti. Perché un ragazzo, che ha fatto molti controlli durante il Giro d’Italia (ed è sempre stato pulito) perché ha la Maglia Rosa sulle spalle, non si dopa a due giorni dalla tappa finale; perché uno che ha qualcosa da nascondere, non accetta di sottoporsi ad un esame palesemente svolto in modo scorretto, a cuor sereno; perché uno che la sera ha l’ematocrito a 47, non può averlo a 53 la mattina dopo e di nuovo a 47 il pomeriggio; perché nessuno lo ha difeso e nessuno si è opposto. [Perché nei giorni e negli anni in cui si distruggeva Pantani, uno come Armstrong veniva coperto da medici, giudici, etc pur essendosi sempre dopato. Portato in trionfo come l’atleta esempio, che aveva sconfitto il cancro ed era tornato a vincere. Lui, che poi ha ammesso di essersi drogato sempre, prima e dopo il cancro (qualche volte anche durante la cura!). Sempre. Sia chiaro: le vicende non sono legate, ma è per dire che c’era chi veniva protetto nell’illegalità e chi veniva accusato di cose che non poteva avere fatto! Le due cose sono avvenute con la stessa facilità]. E poco si sa su chi veramente abbia voluto fermare Marco, in questo modo atroce, entrando a gamba tesa. Si conoscono i motivi (si scommetteva tutto sul secondo, dato per spacciato e si intascavano MILIARDI di lire) ma non i mandanti e forse nemmeno chi abbia alterato le analisi. Nomi che forse non avremo mai, intanto l’importante è che si sappia.

Eppure, anche se ignobile, da sé questa cosa avrebbe anche potuto fermarsi lì. In realtà innescò una tragedia maggiore. Marco non accettò mai di essere stato ferito nell’orgoglio e nella dignità di atleta e di uomo, risaltò in sella, si, ma non fu più lui. [Forse lì cominciò davvero a drogarsi, forse invece no. Ancora adesso c’è chi pensa che si ritirò dal Tour del 2000 per evitare il controllo anti-doping, anziché per una dissenteria. Fosse anche stato dopato, Armstrong lo era più di lui e il Tour era perso comunque. Certo è che la psicologia di Marco era devastata: lui fisicamente c’era, ma la cosa si fermava lì. Sappiamo che il 2003 fu un anno particolarmente duro, con il ricovero in clinica per depressione ed alcolismo. Di droga non si parla, nemmeno l’ombra. La droga salta fuori solo  quel 14 febbraio 2004]. Fino al tragico epilogo, in quella camera nel residence di Rimini tristemente famoso. E se avete pensato di averne sentite abbastanza e credete di essere sufficientemente indignati, arrivati fin qui, preparatevi al peggio. La morte di Marco Pantani è una farsa ancora peggiore dello sgarbo a Madonna di Campiglio, primo perchè lui è morto, secondo perché chi doveva indagare ha fatto, per usare un eufemismo, un gran casino [volontariamente? Involontariamente?]. De Zan, con perizia e dovizia di particolari spiega come sono state fatte le indagini (documentate peraltro!), in quale modo approssimativo e totalmente scevro di competenza siano state raccolte (o meglio scansate) le prove. Come i testimoni vengano smentiti dai fatti, o da altri testimoni. Come molta gente sappia e non parli. Come il corpo di Marco Pantani sfidi qualsiasi legge fisica e medica (secondo il risultato dei reperti). Come non sia stato possibile porre rimedio ai danni fatti sulla scena del crimine, né sarà mai possibile porre rimedio alla morte di un uomo. In un crescendo di schifo, perché altra parola non mi viene, ci si rende conto dell’ingiustizia madornale, aggravata dalla leggerezza, che un’intera famiglia ed una nazione hanno subito.

Perché siamo tutti Pantani. Perché può toccare a noi essere vittime. Se chi dovrebbe indagare per capire, non fa bene il proprio lavoro, siamo spacciati. Tutti. Perché non è il torto o la ragione il punto fondamentale della questione, ma il modus operandi. Adeguate indagini sono solo il punto di partenza, il requisito minimo. E vorrei chiarire che non è la solita lotta guardie contro il resto del mondo. Assolutamente no. Non ci sono buoni o cattivi, ma solo gente che fa il proprio lavoro. Marco era un ciclista, scalava le montagne e lo faceva bene; le forze dell’ordine indagano, cercano di trovare i bandoli delle matasse, approfondiscono, è quello il loro lavoro. Non è facile, alle volte si sbaglia, è umano. Ma ci sono sbagli che si possono evitare, rimandare, non fare… io non voglio nemmeno pensare a persone corrotte, voglio fermamente credere che sia stata solo leggerezza, inesperienza, superficialità, piuttosto che insabbiamento. Voglio credere che davvero abbiano pensato che fosse suicidio, che davvero a nessuno sia venuto il dubbio che potesse essere altro, lì, in quella stanza. Ma dopo avere saputo che Marco quel giorno aveva chiesto alla reception che venissero chiamati i carabinieri (due volte) perché qualcuno lo molestava, dopo avere saputo che qualcuno c’è stato in quella stanza e chissà per quanto tempo (nonostante i testimoni neghino), dopo avere capito quanto fosse palese la presenza di altre persone, dopo avere capito che Marco è stato ucciso, non puoi non pensare che si poteva ancora rimediare, se chi di competenza avesse messo più zelo. E ancora più retroattivamente, se quei benedetti carabinieri fossero stati chiamati, si poteva evitare. Il dubbio viene e diventa quasi certezza. Lo diventa soprattutto quando due magistrati di due città diverse si chiedono, a distanza di 10 anni, se quel giorno sia stato fatto tutto il necessario per scrivere la parola suicidio sul dossier Pantani M.

E riaprono il caso.

E tu capisci che si sono risposti di no.

lunedì 24 agosto 2015

Il profumo

Inizio: 2 agosto 2015
Fine: 5 agosto 2015

Lento. Estremamente lento e viscoso. Questo libro è rimasto per qualche anno sulla mia libreria. Come dico sempre ogni libro ha il suo momento. Ricordo di averlo comprato dopo avere visto le prime scene del film una sera in tv. Mi ci ero imbattuta casualmente, ma conoscevo il titolo del libro. Così, dopo aver spento (ovviamente) il televisore mi ero annotata di comprarlo. La quarta di copertina, soprattutto quando riporta pareri esterni, è sempre la cosa più fuorviante. Anche perché non sarebbe possibile trovarci un’indicazione quale: “decisamente il più noioso dell’ultimo secolo”, quand’anche fosse l’unica cosa sensata da riportare. Ma ammetto che un po’ per fama, un po’ per le impressioni, ci sono cascata pure io. Un serial killer in pieno settecento, wow! Già, wow .. peccato che Suskind si sia interessato a tutto tranne che a quello. Aveva tra le mani un ottimo personaggio, aveva creato dal nulla un capolavoro… la cosa più difficile!

Ed è riuscito a distruggerlo dopo 300 pagine di pura agonia. Da non credere.

Vediamo di andare con ordine.

Jean Baptiste Grenouille nasce e sopravvive per fare un dispetto alla vita e, dopo poche ore, miete la sua prima vittima, anche se involontariamente: sua madre, accusata di tentato infanticidio e abbandono viene giustiziata. Senza un motivo preciso questo bambino porta su di sé il marchio della crudeltà e della cattiveria fin da subito. Rifiutato da molte balie e perfino dai religiosi di Parigi, viene affidato alle cure di una donna che si occupa (dietro pagamento) di bambini abbandonati. Lei, stranamente, non sembra percepire l’inquietudine che il ragazzo emana per il semplice fatto di non avere un odore personale. Il fatto che egli non abbia, come tutti gli uomini, un odore proprio, lo rende sospetto agli occhi degli altri. Ma Jean Baptiste è troppo preso dagli odori del mondo per rendersi conto che solo lui ne è privo. Il ragazzo non solo percepisce gli odori ed i profumi che tutti percepiscono, ma sente molto distintamente una categoria inaccessibile ai più: l’odore del vetro, del legno, di un gattino appena nato, del denaro, di ogni singolo animale, dei sassi, di qualsiasi cosa semplicemente esista. Allontanato dalla casa famiglia, trova lavoro presso una conceria. È questo il periodo del suo primo omicidio. Guidato attraverso Parigi da un profumo, che lui definisce “il profumo dell’amore”, arriva alla finestra di una fanciulla. Lei è di spalle alle prese con della frutta, e non sia accorge di nulla. Ma Jean Baptiste si avvicina troppo, annusandola con voluttà e lei percepisce una presenza alle sue spalle. Il tempo di girarsi ed il ragazzo la strangola. Neanche il tempo di un ulteriore respiro. E come se non bastasse la spoglia, per annusare tutto il suo profumo, immagazzinarlo nella sua mente e non dimenticarlo più. Già, perché se lo dimenticasse, sarebbe irrimediabilmente perduto per sempre. La sua vita riprende esattamente come se nulla fosse; lavora sodo, senza lamentarsi di nulla, senza essere pagato; il mestiere è pesante ma Jean Baptiste ha una cosa sola in mente: riuscire a lavorare alla profumeria Baldini. La rinomata profumeria di Baldini è una delle più vecchie e prestigiose di tutta Parigi e lì, Jean Baptiste, intende imparare l’arte del conservare gli odori. Con un escamotage che ha dell’incredibile, il ragazzo guadagna la fiducia del profumiere, che fino a cinque minuti prima dell’incontro aveva deciso di chiudere bottega, vendere e tornarsene in Italia, a Messina. Invece compra (letteralmente) l’apprendista dal mastro della conceria e si prepara a fare faville. La profumeria rinasce, cresce e si rinnova con le squisite essenze create di nascosto da Jean Baptiste, che mille ne crea e altre diecimila ne immagina e pensa. Nessuno sa che non è il buon vecchio Baldini a creare le fragranze, ma il ragazzo non vuole fama né successo, né tantomeno soldi, vuole solo che gli venga insegnata l’arte con la quale racchiudere tutti gli odori del mondo in altrettante gocce di essenza. Ma quando si rende conto che il maestro profumiere non è in grado di insegnargli questo, Jean Baptiste si ammala gravemente. Si riprende solo ed esclusivamente quando viene a sapere che a Grasse insegnano altri metodi di estrazione delle essenze. Come arrivarci da uomo libero? Dopo altri tre annidi lavoro e parecchie promesse, finalmente il ragazzo, ormai diciottenne, parte con il suo diploma di garzone nelle mani e qualche soldo. Nel suo lungo viaggio verso Grasse, però, il giovane Grenouille si rende conto che è nauseato dagli odori degli uomini, che, dopo essersi finalmente lasciato Parigi alle spalle, non vuole più sentirne lo sgradevole, inconfondibile essenza. Schiva così ogni presenza umana per giorni, arrivando ad allungare notevolmente il suo viaggio e in qualche modo, portandolo a termine fermandosi su una montagna assolutamente arida ed inospitale per la bellezza di sette anni. Sette anni chiuso in una spelonca dormendo per la maggior parte del tempo, vivendo nelle innumerevoli stanze che la sua mente ha creato. Fino a quando, finalmente, la consapevolezza di non avere un odore lo turba e lo scuote a tal punto da ridestarsi e rimettersi in marcia. Uno straccio d’uomo, un cencio di 25 anni, con la barba fino a terra e i capelli incolti, le unghie sporche e lunghe, un mostro curvo e mezzo nudo si aggira per i campi spaventando chiunque. Per salvare sé stesso Jean Baptiste racconta di essere stato tenuto prigioniero per sette anni, rapito e poi misteriosamente liberato. La sua storia attira l’attenzione di uno pseudo scienziato: il marchese Taillade-Espinasse; quest’uomo aveva una teoria della quale era fermamente convinto e Grenouille sembrava davvero la prova in carne ed ossa della stessa. Secondo il marchese infatti il contatto e la vicinanza con la terra portano l’uomo ad ammalarsi gravemente e quindi a morire. Più ci si allontana dai gas veleniferi emanati dal terreno, più si vivrà. Jean-Baptiste era stato sicuramente stato ridotto così dalla forzata permanenza in una grotta nella roccia nuda, pericolosamente infida. Il ragazzo coglie l’espediente per rimettersi in sesto e crea per l’occasione “un profumo” che gli consenta di odorare come tutti gli uomini. In questo modo egli potrà aggirarsi per Montpellier senza dare nell’occhio. Finito il suo compito … semplicemente sparisce. Arriva finalmente a Grasse dove trova facilmente di nuovo lavoro presso una profumeria, quella della vedova Arnulfi. Ma a grasse, il ragazzo, trova anche un’altra cosa: un profumo, ancora più potente di quello della fanciulla di Parigi, un po’ più acerbo poiché colei al quale appartiene è ancora una bimba. Quel profumo tra due anni esploderà con tutta la sua forza e Grenouille giura a se stesso che in due anni troverà il modo per preservare finalmente quel profumo, stillarlo, estrarlo e creare con quello il suo reale proposito: il profumo dell’Amore. Grasse però, dovrà pagare caramente la follia di quest’uomo, al quale nulla e nessuno può sfuggire.

Jean Baptiste de Grenouille (nella finzione letteraria) ha ucciso 24 ragazze più 2.. e Suskind perde tre quarti di libro a raccontare cose assolutamente … noiose. Sono d’accordo su una cosa: ha saputo creare un personaggio unico ed inquietante, peccato non abbia saputo bene cosa farne. L’inizio del libro è già abbastanza denso, quando Suskind descrive tutti gli odori che si possono percepire per le strade di Parigi. Una lunghissima sequela di effluvi che pare non finire mai. Due pagine e mezza buone, quasi tre, che manco Eco per descrivere il portale del convento ne “Il nome della rosa”. Un’ansia pazzesca. Ora grandissimo merito va al lessico, sicuramente notevole e mai scontato, con una ricerca di parole e sinonimi davvero mastodontica, quasi eroica… però a parer mio non basta. In poco più di 50 pagine si compiono ventitré omicidi e non uno, nemmeno uno, viene descritto. Come se il libro parlasse di tutt’altro, come se gli omicidi fossero marginali. Probabilmente nella mente di Suskind era decisamente così. Forse, pur avendo creato un serial killer, l’autore non ne ha compreso la potenza letteraria, declinando tutta l’attenzione del lettore su altro. In questo libro il lettore si sente un cane randagio, indesiderato peraltro, alle calcagna di Grenouille, così, per tutto il romanzo, senza sosta. Senza che sia chiaro fino in fondo (e nemmeno in fondo) per quale dannato motivo Jean Baptiste sia così cattivo, insensibile, quasi avesse il male geneticamente insediato e quasi avesse nel male la sua unica possibilità di vita. Lo stesso male che inutilmente riversa verso se stesso, in un ultimo estremo atto di egoismo. Vuole essere amato, si, ma di un amore finto, idolatrante, annichilente e totalmente malato.

Un stanza piena di gente

Inizio: 7 agosto 2015

Fine: 20 agosto 2015

"[...] Dovevo combattere? Dargliela vinta? […] Ma vale la pena di vivere inghiottiti dal bidone della spazzatura che la società riserva alle menti disadattate?



Quando ho letto Shantaram ho compreso che tutti (o quasi) abbiamo diritto a
non essere giudicati, ad avere una seconda opportunità e che, spesso, è più importante cosa facciamo per porre rimedio ai nostri errori, che non gli errori stessi che abbiamo commesso. Tuttavia i crimini efferati solitamente non mi lasciano molto spazio di manovra: condanno bruscamente e senza nessuna attenuante. Laddove poi vi sia un chiaro intento di violenza gratuita, di amore per la crudeltà, aggiunto ai futili motivi, alla totale assenza di empatia, pietà, etc… arrivo a formulare pensieri ancora più… rigidi. Per me, certi delinquenti, non dovrebbero nemmeno rivedere la luce del sole, altro che essere reintrodotti in società… Uno stupro (che sia ai danni di una donna o di un uomo –e non apro nemmeno l’argomento bambini…) è decisamente troppo grave per essere anche solo lontanamente compreso, figuriamoci giustificato. È brutale, spietato, violento e devastante. Non riesco a scusare, a capire, a difendere. Non che io non creda a quelli che vengono definiti “malati patologici”, ma credo che poi, come sempre, se ne approfitti anche chi non ha nessuna patologia. Il campo dell’infermità mentale è davvero difficile da delimitare. Spesso ho sentito medici giustificare il presente violento di alcuni pazienti (stupratori) rimandandone le cause a infanzie rubate, a molestie subite, ad abusi. Ok, allora qualcuno può spiegarmi perché un buon 80% (non mi spingo oltre) di abusi è perpetrato sulle donne, sulle ragazze, (sulle bambine perfino!) e poi, invece, sono gli uomini a diventare molestatori/stupratori? Qualcosa non torna in questo meccanismo.

Ad ogni modo, per la prima volta, mi sono trovata davanti ad una storia incredibile nell’accezione buona del termine. Credibilissima ed estremamente inquietante, ansiogena e choccante. E per la prima volta nella mia vita ho davvero inteso cosa significhi “non essere capace di intendere e di volere”. Che poi, nella realtà (lo capirete), chi ha commesso gli stupri era ovviamente capace di intendere e volere, ma non si può condannare William Milligan per questo. La sua condizione lo ha condannato per tutta la vita ad una sofferenza pari a quella che ha inflitto alle sue vittime. Mi rendo conto che sia difficile da capire, detto così, ma leggendo oltre, sono sicura che comprenderete.
Ohio, Stati Uniti. 1977-1978. Le giovani rapite dal campus, stuprate, rapinate e rilasciate sono già salite a tre. Insieme al numero sale anche l’indignazione pubblica e la paura per quello che ormai tutti chiamano lo stupratore del campus. Tra interrogatori incrociati alle vittime e rilevamenti di impronte, nei database della polizia appare un riscontro: William Stanley Milligan, già schedato per altri crimini. Quando due vittime su tre lo riconoscono con certezza, oramai il caso sembra chiuso: il procuratore chiederà il massimo della pena per ogni stupro. Non esiste altra possibilità. A poco serve che al momento dell’arresto Billy sembri totalmente incapace di spiegarsi cosa diavolo stia succedendo e continui a ripetere di non saperne nulla. A nulla serve quella frase lanciata dalla cella “Oh mio Dio, oh no, ancora?!” seguita da un tentativo di suicidio. Come si fa a prestare attenzione a queste cose quando tutte le prove portano a lui? E non solo, anche le vittime lo hanno riconosciuto. Così Billy resta come in trance. E poi di colpo si ridesta, sembra diverso. Alle volte  arrogante e manipolatore, altre sembra collaborare (continuando comunque a negare), altre addirittura sembra un bambino, spaurito e bisognoso di affetto. Un elemento, peraltro, già evidenziato dalle vittime, che descrivono Milligan come avente comportamenti completamente diversi: dal momento del rapimento a quello del rilascio sembrava passare dall’aggressività (marcata da un forte accento iugoslavo) alla confusione, alla dolcezza, ad un affettuosità marcata e poi di nuovo alla stizza…
La prima ad accorgersi di tali sbalzi è il suo avvocato, Judy Stevenson. Lei e il collega Gary Schweickart non credono di poter far passare Milligan per uno con infermità mentale, tuttavia qualcosa nel suo comportamento non torna. Chiedono così la perizia della Dottoressa Dorothy Turner, affermata psichiatra di indubbia reputazione e fama. Quello che si troverà davanti, la segnerà come donna e come psichiatra per il resto della sua vita. William Milligan, che le sta davanti, parla di Billy Milligan in terza persona, come se lo conoscesse di vista e nulla più; all’ovvia domanda “Ma con chi sto parlando, tu chi sei?” la risposta è “Io sono David, Billy sta dormendo”. David ha otto anni, e subentra quando c’è sofferenza; nell’angoscia di trovarsi con quella donna in una stanza chiusa le rivela il segreto di William, che mai avrebbe dovuto rivelare. Loro non sono uno solo (William), sono una famiglia capeggiata da Arthur e Ragen. E loro si arrabbieranno molto quando scopriranno che lui, David, ha rivelato il segreto.
“Arthur dice che sono il guardiano del dolore. Quando qualcuno si fa male, sono io che vengo fuori su posto e lo sento. […] Arthur ci ha spiegato come funziona quando uno di noi deve venir fuori. È un grande fascio di luce bianca. Tutti stanno intorno, guardando o dormendo nei loro letti. E chiunque mette piede sul posto, è fuori nel mondo. Arthur dice che chiunque sta sul posto possiede la coscienza.”
Il giorno successivo, la situazione peggiora quando Dorothy apprende da Christopher, di tredici anni, che David è stato sgridato ed allontanato, Arthur è furibondo e lui non ha nessuna intenzione di peggiorare le cose. Non parlerà. Rivela a Dorothy solo la presenza, tra gli altri, di sua sorella Christene di tre anni. Dopo qualche giorno è la volta di qualcun altro che la Dottoressa Turner ancora non ha visto. Ha imparato a riconoscere i vari ragazzi dalle loro movenze, dallo sguardo, ora sa che non esiste possibilità che William menta, quelle personalità esistono e lui con tutta probabilità non ne è cosciente. Ma questo è nuovo, è Tommy, ha sedici anni. E non è finita.­ Nonostante la promessa fatta a David (di non rivelare ad altri il loro segreto) la Dottoressa Turner cerca di spiegargli che è importante che la signorina Stevenson sappia di tutta questa gente, affinché possa evitare a William (e a tutti gli altri) di andare in prigione. È difficile strappare a David il consenso, terrorizzato com’è dall’ira di Arthur. Così subentra Allen,18 anni, il manipolatore. E poi è il turno di Danny, di 14anni. Per ultimi faranno il loro ingresso Arthur e Ragen, il primo è colui che gestisce tutti quando c’è bisogno di logica e ragione, il secondo interviene in caso di pericolo e solo ed esclusivamente per difesa, mai per attacco. Arthur è inglese, ha ventidue anni, conservatore ed ateo, autodidatta di fisica e chimica, studia medicina. Legge e scrive fluentemente l’arabo. Ragen, ventitré anni, è il guardiano dell’odio. È iugoslavo, comunista ed esperto di karate, scrive e parla serbo-croato ed è l’unico autorizzato a possedere e utilizzare armi. Arthur decide infine di collaborare, a patto che si chieda il permesso e lo si ottenga da ognuno di loro. L’osso più duro è Ragen, che teme di essere accusato anche di altri crimini, che e crede di aver commesso (come alcune rapine). Alla fine, dopo non poche garanzie e molte ore passando da uno all’altro, tutti accettano, Ragen compreso. Oltre ai suoi avvocati, per la prima volta anche l’accusa ed il procuratore vengono informati dei fatti ed invitati a vedere con i propri occhi questo stupefacente caso. Si convinceranno da soli di ciò che vedono. In sala sono presenti anche alcuni medici che possano attestare la gravità della personalità multipla di William. A tutti è fatta richiesta di assoluto silenzio, si presenteranno quando verrà chiesto loro e non dovranno intervenire in alcun modo. Finalmente Dorothy Turner può presentare tutte le personalità (o quasi) e mostrare come sia assolutamente impossibile fingere. Riesce perfino ad ottenere da Arthur il permesso di parlare con il vero William. Ognuno di loro ha una perfetta percezione di sé, della propria età ed aspetto fisico (diverso per ognuno) [nota personale: non so se esistano dei filmati visionabili dal pubblico… ma deve essere stato davvero inquietante]. Appare chiaro che alcuni di loro non sanno dell’esistenza degli altri, non di tutti quantomeno ed è Arthur che si sobbarca il compito quotidianamente di mettere ordine. Lo fa da sempre, da quando tiene Billy addormentato (da quando ha tentato il suicidio a 16 anni); è lui a decidere chi può uscire e chi no. È lui che ha scoperto tutti gli altri e per primo è riuscito a rimanere sul posto quando qualcun altro cercava di rubare il tempo. Riesce a percepire i pensieri di quasi tutti ed è sempre con lui che bisogna ragionare per arrivare a qualsiasi compromesso. È lui, ancora una volta, che mette ordine negli avvenimenti e nei vuoti per capire chi ha commesso i crimini. Ragen voleva rapinare le banche, Allen o Tommy subentravano dopo che Christene aveva calmato Ragen… così, dopo, Ragen si ritrovava stordito dalle anfetamine e dalla vodka, con i soldi e gli assegni incassati. Pensava di avere rapinato le banche. Invece, nel mezzo, era successo tutt’altro. Su una cosa erano tutti d’accordo: nessuno ammetteva gli stupri. Ma allora chi? Esisteva una ulteriore personalità, Adalana, diciannove anni, lesbica, timida ed introversa, bisognosa di affetto. È lei, la stupratrice; è lei che ha messo nei casini tutti quanti, uscendo sul posto nell’esatto momento in cui avrebbe potuto avere un po’ d’affetto…
Nei mesi che precedono il processo, Billy viene mandato al Harding Hospital la mattina del 16 marzo 1978, con tre giorni di anticipo, sotto il controllo e le cure del dottor Harding. Billy è tenuto addormentato da Arthur perché non appena “si sveglia”, non capendo, cerca di uccidersi. Quindi sono Allen e Tommy a girovagare per l’ospedale per la maggiore. Se si spaventano subentra Danny, se invece si fanno male, subentra David. Mentre lui è in attesa di giudizio, si cerca di ricostruire la sua vita. Il dottor Harding fa risalire la dissociazione multipla all’età di otto anni, quando il patrigno lo molestò per la prima volta (di una lunga serie, purtroppo). Molestare è un eufemismo: Chalmer Milligan sodomizzò il bambino per ore costringendolo ad ogni tipo di rapporto, seviziandolo e minacciando di sotterrarlo vivo. Fu allora, che David venne a prendersi il dolore per la prima volta, domandandosi perché fosse lì. Questo infatti è uno degli aspetti più traumatici: ognuno di loro (Arthur e Ragen a parte) ha coscienza di ciò che fa fino a quando non lascia il posto. Quando riprende il posto non sa cosa sia accaduto nel frattempo. Non capisce, ricorda l’ultima cosa che ha fatto e poi… buio. Spesso possono essere passati giorni, settimane o mesi. Questo è il senso della frase pronunciata da Billy (realmente da William) al suo risveglio in prigione. Ci si era già trovato altre volte, senza capire, SENZA POTER CAPIRE. Sei anni di vuoto. Sfido chiunque a non avere voglia di uccidersi seduta stante. Ed a tutela di tutti, Arthur ha deciso di non svegliarlo più. Il rischio che si uccida è troppo alto. Morirebbero tutti. Non morirebbe William, no no, morirebbero tutti loro: William, Arthur, Ragen, Allen, Tommy, Danny, David, Christopher, Chritìstene  e Adalana.
Come Allen spiegò al Dottor Harding:
“Non siamo personalità, siamo persone"
“Perché fai questa distinzione?”
“Quando le chiama personalità, è come se pensasse che non sono reali”.

Come ci si aspettava, il 4 dicembre 1978, William Milligan viene dichiarato incapace di intende e di volere, affetto da infermità mentale. Viene disposto che venga portato all’Athens Mental Health Center da uomo libero, non condannato, affidato alle cure del Dottor David Caul, perché se è pur vero che non è stato condannato, ha bisogno di cure, di vere cure. Prima del processo il Dottor Harding aveva riscontrato un parziale successo nel tentativo di fondere Billy con tutte le sue personalità. Loro erano disposte a sacrificarsi per il bene comune: permettere a Billy di vivere una vita normale da buon cittadino. C’era stato un precedente, con il caso di Sybil, tuttavia alla psichiatra Cornelia Wilbur erano occorsi quasi dieci anni di terapia per fondere le dieci personalità in un’unica Sybil. Il Dottor Harding aveva avuto troppo poco tempo e troppe personalità radicate con le quali lavorare. Così lo stress del processo e la precaria stabilità della fusione, avevano portato William a dissociarsi di nuovo ed a peggiorare la situazione erano emersi gli indesiderabili. Quattordici, ALTRE QUATTORDICI personalità che Arthur aveva bandito per anni in quanto violente, asociali, inadatte. Rimaste lì, latenti, avevano preso nuovamente il controllo senza che Arthur se ne accorgesse. Avevano ricominciato a rubare il tempo nei periodi di confusione che nemmeno il razionalissimo inglese riesce a gestire. Ed ecco sfilare davanti a noi ed ad un incredulo, ma ben preparato Dottor Caul, Philip e Kevin, i due delinquenti incalliti dediti allo spaccio. Il primo, 20, newyorkese con un forte accento di Brooklyn, usa un linguaggio volgare; Kevin, stessa età, organizza rapine (entrambi hanno rubato tempo tra Ragen e Adalana, durante i sequestri). Walter, 22 anni, l’australiano, il ricognitore. April, la prostituta di 19 annidi Boston, si divide le faccende domestiche con Adalana e cerca costantemente di istigare Ragen. Samuel, 18 anni, l’ebreo, l’unico credente. Mark, 16 anni, definito lo zombie. Steve e Lee che si contendono il titolo del più divertente, il primo, 21 anni è definito un impostore, il secondo, di 20 anni il commediante. E poi ancora Martin, di 19 anni, definito lo snob. Timothy, 15 anni, che ha resistito lavorando da un fiorista fino a quando non ha subito avances sessuali dal proprietario, da allora si è chiuso nel suo mondo. Jason, tredici anni di furia, rabbia e scoppi d’ira, Robert, 17 anni, il sognatore, ed infine il piccolo Shawn, di soli 4 anni, completamente sordo (prendeva il posto perché Tommy e Allen non potessero sentire le urla di Chalmer Milligan, prima che arrivasse David a sentire il dolore). Come se questo sterminato e inquietante elenco non bastasse, esiste un’ulteriore personalità, quella che si definisce Il Maestro, la ventitreesima. Il Maestro si definisce Billy tutto in un pezzo, a differenza di William, che è completamente scisso dagli altri e viene identificato come Billy-U (Billy Unfused). Lui è l’unico in grado di spiegare tutto, al Dottor Caul, dal principio alla fine; da che ha memoria del piccolo Billy fino al giorno stesso in cui parla col Dottore, spiegando con dovizia chi, di volta in volta, sia uscito sul posto. Si arriva a questo dopo 200 pagine buone e qui davvero ci si comincia a rendere conto di quello che abbia significato essere (o non essere) William Stanley Milligan. Solo con il continuo alternarsi dei suoi alter ego gli è stata garantita la sopravvivenza negli anni, a prezzi estremamente alti si, ma almeno è sopravvissuto.

So che è decisamente brutto da dire, ma lungo questo viaggio io mi sono completamente dimenticata le vittime… è sbagliato, poverine, so che è sbagliato. Loro dovrebbero essere sempre il primo pensiero, ma è difficile per me pensare a Billy come a un criminale. Io non sono riuscita a provare qualcosa di diverso da una grandissima pena per questo ragazzo. E la domanda che più spesso mi sono fatta scorrendo queste 540 pagine è stata “Dio mio ma come ha fatto?”… a non impazzire, a non morire, a non uccidersi, a non essere ucciso, ma soprattutto: come ha fatto a vivere così. Il pensiero che invece ha caratterizzato le ultime100è stato: “Perché la gente non ha compreso? Perché non hanno capito?”.

Lo smarrimento, il dolore, la confusione .. è stata davvero dura emotivamente leggere questo libro. Tuttavia credo che sia giusto sapere che possono esistere persone come Billy, che la sua storia possa insegnare molto, a molti. Sono “felice” di averlo conosciuto. Tutto sommato, se ci pensate bene, è davvero stata una persona straordinaria.

martedì 9 giugno 2015

Suite Francese

Inizio: 1 maggio 2015
Fine: 8 giugno 2015
 

Non voglio fare una lunga premessa, ma due parole le voglio dire prima di recensire. Io, che nella vita mi sono trovata a leggere e studiare le peggiori barbarie del mondo (dalle dittature di tutta l’America Latina, alla guerra ed ai campi di concentramento in Sud Africa, al colonialismo sfrenato e feroce di tutta l’Africa Sub Sahariana, arrivando fino alla lontanissima Australia, segnata da crudeltà e barbarie inaudite) mai e poi mai mi ero accostata ad un romanzo sulla Seconda Guerra Mondiale. Ad essere onesti nemmeno sulla prima. Fin dalle scuole medie le poche immagini che ho visto sulla carta mi hanno impressionato al punto tale da crearmi un blocco emotivo. Alle superiori ho supplicato il mio prof di Storia di esonerami dalle visioni video e quando mi ha visto in lacrime davanti al primo filmato, non è andato oltre nel tentativo. Nemmeno leggerne, non posso nemmeno leggerne. Il solo pensiero di quella immane tragedia mi blocca. Io non tollero la barbarie e la crudeltà, non tollero le ingiustizie, le cattiverie, la violenza. Non posso vedere un filmato sui campi di concentramento senza sentirmi mancare (letteralmente) dopo pochi secondi. La mia mente non riesce a contenere tutto questo, non ce la faccio proprio a gestire l’emotività. Comincio a piangere e a stare male.

“Non sai stare al mondo” direte voi, “vero, forse avete ragione”.

Resta di fatto che in questo momento di profonda crisi e tristezza personale ho deciso di leggere questo libro. Non sapevo cosa aspettarmi ed avevo timore di stare male. Quel male che ti bastona ma non ti finisce del tutto, perché sai che non puoi farci niente, la storia è storia, ma non l'accetti. Invece ho scoperto che Irene, non solo non inscena scene troppo crudeli, ma racconta di un’epoca più che della guerra. Perché come dice lei stessa nei suoi appunti “della guerra ci si dimentica”. Povera Irene, quanto ha ragione!
La storia dovrebbe insegnare e lo fa, ma noi siamo tutti sordi e non impariamo mai. Ed ora, che la generazione di nonni e anziani che la guerra l’ha vista e l’ha vissuta sta scomparendo… io ho più paura che mai. Perché nessuno di noi sa cosa significhi sentire un allarme aereo, una bomba che esplode, non sa cosa sia la fame, il freddo, la paura che non ti lascia mai… poveri noi. Che tutti le anime vittime di guerra ci proteggano.

Parigi. 10 Giugno 1941. Oramai non c’è più molto tempo, i tedeschi stanno per invadere la capitale francese ed i bombardamenti potrebbero cominciare da un momento all’altro. L’allarme è dato e bisogna fuggire. Chi ha sentito odore di guerra se n’è andato da tempo, qualcun altro sta preparando frugali bagagli, qualcuno, impavido non partirà mai. Charlotte Pericand, moglie di Adrien Pericand, sta ultimando con ritardo le ultime cose. Lei, il suocero ed i bimbi più piccoli (Emmanuel, Jacqueline e Bernard, rispettivamente 1, 8 e 9 anni) si stanno dirigendo in Borgogna, a casa della madre di Charlotte. Il diciottenne Hubert li seguirà in bicicletta, mentre il figlio maggiore, Padre Philippe, si tratterrà per accompagnare personalmente i poveri infelici dell’Opera dei Piccoli Residenti del XVI in un luogo prescelto a circa cinquanta chilometri dalla sua parrocchia di montagna. Anche Adrien si tratterrà a Parigi. Lo scrittore Gabriel Corte non è felicissimo di non poter accendere le luci in piena notte per scrivere, questa storia stava diventando un incubo e l’idea, il suggerimento di Jules Blanc (membro della presidenza del Consiglio) di lasciare Parigi è anche peggio; pe fortuna Florance ha pensato a tutto ed ha preparato una valigia con le cose necessarie emesso anche i suoi preziosi manoscritti nella cappelliera. I coniugi Michaud, recatisi in banca di lunedì avevano scoperto che il direttore Corbin intendeva trasferire tutto nella filiale di Tours ed aveva deciso di caricare tutti i documenti sulla sua macchina e viaggiare insieme ai Michaud. Quanto meno non avrebbero dovuto separarsi, loro, che come altri migliaia di parigini avevano il figlio, Jean-Marie al fronte. All’ultimo momento però sono rimasti senza passaggio, scalzati dall’amante di Corbin. Anche Charles Langelet è stato abbandonato, ma dai suoi domestici (che sono fuggiti); lui sta preparando le valige con lo stretto necessario ed anche se dice a tutti di non temere né guerra né morte, si prefigge di raggiungere il confine spagnolo, valicarlo, arrivare  a Lisbona ed imbarcarsi. Le stazioni sono state sprangate, i taxi sono rimasti senza benzina, chi ha un mezzo lo sta usando per scappare (forse caricando amici e parenti), tutti gli altri, disperati, stanno andando a piedi, lasciandosi Parigi alle spalle. Comincia così l’esodo. Chi va verso Tours, chi verso Orléans, chi cerca di spingersi il più lontano possibile; i bombardamenti cominciano e ben presto Padre Philippe deve scendere dal camion insieme agli orfanelli per lasciarlo ai militari che devono trasportare i feriti. Tra i feriti c’è anche Jean-Marie, che per un soffio non incrocia Jeanne e Maurice, i suoi genitori. È ferito, in modo grave e viene lasciato in una casa alle cure di alcune donne. La situazione diventa sempre più critica: le cittadine di provincia vengono prese d’assalto dai profughi che hanno fame; non c’è più nulla per nessuno. La situazione con il passare delle ore può solo peggiorare, la guerra non guarda in faccia nessuno, anche se, chi è disposto a pagare, ha più possibilità di sfamarsi e riposare comodamente. Le morte però è la morte e contro quella a nulla servono i soldi.

Lucile Angellier vive con la suocera. Sono ricchi, gli Angellier, hanno una tenuta a Bussy da fare invidia, ma la tragedia si è abbattuta sulla famiglia da quando il figlio Gaston è partito per la guerra e si ignora dove sia. La nuora, Lucile, è sempre troppo o troppo poco affranta per la sorte del marito, così la vecchia Angellier non fa che sfiancarla con continui rimproveri. Inutili ed ingiusti, tanto più che quel prode figlio ha tradito la moglie svariate volte e da molto tempo intrattiene una dispendiosa relazione con un’amante… interrotta solo dalla guerra. Lo sconcerto raggiunge l’apice quando viene reso noto che un tedesco abiterà nella casa di Gaston: già, l’invasore, il nemico, il tedesco, l’usurpatore, entrerà in quella casa e ne occuperà le stanze, ne godrà a fondo come fosse sua. Perché ora che i tedeschi hanno occupato la zona (e il resto di Francia) è evidente che necessitano e pretendono case, letti e tavoli imbanditi. Nonostante non si possa dir di no, la signora Angellier è pronta a tutto pur di dimostrarsi altera, fiera, contrariata e scandalizzata per quella disgustosa invasione. Bruno von Falk prende così posto a casa Angellier, più alto è il grado, migliore sarà l’alloggio. A lui quindi tocca la casa di Gaston e la sua famiglia. Egli, come molti altri tedeschi, è beneducato e ben disposto ad una pacifica convivenza: non ci si può dimenticare la guerra in corso, ma si può convivere cercando di non darsi troppo fastidio. Molte donne in paese, prive dei propri mariti e senza giovani a disposizione, intrattengono relazioni più o meno amichevoli con i tedeschi. Certo non subito, ma con il tempo ci si abitua a quei ragazzi biondi, simpatici e stranieri. Loro che si sforzano di imparare qualche parola di francese, qualche complimento, che regalano ancora fiori e sfiorano mani. Anche Lucile, suo malgrado, si sente attratta da Bruno, che insistentemente (ma dignitosamente) cerca di risvegliare il suo interesse, pur avendo lui una moglie che lo attende a Berlino e lei un marito dall’altra parte della barricata. Un sentimento nascosto ma non troppo, contraddittorio, dolcissimo e commovente segna tutta la seconda meravigliosa parte di questa fantastica opera incompiuta.

Non c’è molto altro da dire. Irene aveva una grazia nello scrivere davvero eccellente, sarebbe stata un’opera meravigliosa, colossale, un monumento ad un’epoca. Ma non ha potuto terminarla. E il mio pensiero va a quanti di loro avevano un dono, un talento, che non hanno potuto offrire al mondo. Quanti di loro sarebbero stati Premi Nobel o scienziati famosissimi, geni, musicisti, scrittori e artisti. Non che importi, perché per me erano persone che meritavano di vivere la loro vita, a prescindere da quello che avrebbero fatto. Tuttavia, nella mia testa, mi ripeto: quanta umanità gettata via!

lunedì 8 giugno 2015

La Meccanica del Cuore


Inizio: 2 giugno 2015
Fine: 3 giugno 2015


Comincio con una premessa: non mi sono mai piaciute le favole, le fiabe, insomma le storielle a lieto fine che si raccontano ai bambini e che spesso continuano a far sognare le persone anche da adulte. Io e i sogni abbiamo un rapporto strano e non è questa la sede per dilungarmi in merito. Tuttavia mi sono accostata volentieri a questo libro e non mettetevi a ridere per il motivo. Mi sono imbattuta per caso in un post, su Twitter, che faceva una specie di oroscopo per lettori. Incuriosita ho letto il suggerimento per lo Scorpione et voilà, mi hanno assegnato la Meccanica del Cuore. Mi son detta “Ma si Elena, vediamo come va”. È andata. Non saprei dirvi se bene o male, intanto è andata. Diciamo che in qualche modo mi ha fatto rivivere uno stato d'animo particolare, nonostante io lo viva quotidianamente ormai; l'ho percepito come accentuato, mi ha spinto alle lacrime ma purtroppo non è stato catartico. Magari non era questo l'intento, magari non sono pronta io... Mi sono ritrovata ad avere ancora 12 anni quando per la prima volta vidi Edward mani di forbice. Il mio non fu un incontro felice, per nulla proprio. Non amo particolarmente Tim Burton e quel film mi sconvolse non poco, considerando che all’epoca dei fatti avevo una stanza identica a quella della protagonista (con tanto di specchio che inquadrava il letto retrostante) e per settimane continuai ad avere l’ansia. Questo libro potrebbe averlo scritto lui, o averlo ispirato in qualche modo. Ora, io non amo le favole perché mi ritengo realista, ma a mio parere se realizzi una fiaba drammatica, stai mancando l’obiettivo - e non apro parentesi sulla differenza tra favola e fiaba! - stai dimenticando il tuo pubblico per eccellenza: i bambini. Se vogliono sognare, lascia deciderlo a loro (mi si perdoni l’enfasi!) ma dagli uno strumento con cui farlo, qualora volessero. Ad ogni modo La Meccanica del cuore è esattamente così, una fiaba drammatica in chiave moderna (alle volte un po’ troppo) e quasi più per adulti che per bambini. L’intento di Malzieu non mi è stato chiaro nemmeno alla fine, quindi lascio a voi l’ardua sentenza!



Edimburgo, Scozia. Nella notte più fredda del 1874 viene al mondo Little Jack. Nasce nella casa in cima alla collina dove la dottoressa Madeleine aiuta chi altro aiuto non ha; emarginati, donne sole, prostitute, vagabondi, tutti trovano conforto e aiuto da colei che i più considerano alla stregua di una strega. Già, una strega, perché solo un essere demoniaco può aggiustare le persone rotte e malandate. Così, quando Jack nasce con il cuore completamente ghiacciato, Madeleine non si scompone più di tanto e per salvargli la vita gli impianta nel petto un orologio a cucù. Abbandonato dalla madre, Little Jack cresce con le amorevoli cure di Madeleine e degli strani ospiti itineranti della sua casa, come Anna, Luna ed Arthur con la sua colonna vertebrale musicale; gli anni passano ma nessuno lo vuole, altri bambini vengono adottati mentre da lui fuggono, inorriditi alla vista del cuore cucù, tutti i genitori bendisposti. Jack sa di essere diverso, ma non capisce perché la gente non possa accettarlo nonostante la sua evidente diversità, soffre, si sente rifiutato, solo ed abbandonato, così, quando il piccolo ha cinque anni, la dottoressa Madeleine decide di tenerlo definitivamente con sé. La vita scorre relativamente tranquilla, fino a quando quantomeno Jack non comincia a manifestare una sana voglia di vedere altro, oltre alla casa in cui vive. Dopo anni di dinieghi finalmente per il decimo compleanno, Madeleine acconsente a fare un giro in città con Jack. Il bambino è rapito da qualsiasi cosa, qualsiasi rumore e colore, dalle forme delle cose e delle persone. Ma tutto si eclissa quando scorge una piccola cantante che sbatte contro le cose perché non porta gli occhiali. Il suo cuore impazzisce, il cucù esce impetuosamente dalle bende e dalla camicia, spaventando tutti i presenti. Madeleine lo trascina nuovamente in cima alla collina, a casa. Lei ci prova a mettere in guardia Jack dalle emozioni e dall'amore: il suo cuore è troppo fragile, troppo delicato per sopportare questi scossoni, sarà meglio che si tenga dunque alla larga da molte cose. Ma il danno, oramai, è fatto. Jack vuole a tutti i costi ritrovare la piccola cantante; si iscrive persino a scuola nella speranza di incontrarla. Al suo posto incontrerà invece Joe determinato a far rimpiangere a Jack sia la decisione di andare a scuola sia, peggio ancora, l'aver chiesto della bellissima Miss Acacia. dopo tre lunghissimi anni di soprusi Jack decide di affrontare Joe, ribellandosi alle sue angherie. entrambi hanno passato il segno però e Jack è costretto a fuggire in gran segreto da Edimburgo. Meglio così: andrà a cercare Miss Acacia in Andalusia, a Granada. Comincia qui un viaggio rocambolesco che lo porterà oltre i suoi limiti, verso un futuro ignoto si, ma che ha molto del passato.
Miss Acacia, rincorsa su e giù per la Spagna diventerà il suo grande amore e poi di nuovo la sua croce, drammaticamente, fino alla fine. Insieme a lui Georges Melies, splendido personaggio realmente esistito, che si fa carico (nell'immaginazione di Malzieu) della cura del cuore di Jack: Madeleine gli aveva detto infatti di affidarsi ad un orologiaio ma non ad un dottore, che non avrebbe saputo aiutarlo né guarirlo.
Georges è l'amico ideale, il compagno di viaggio perfetto, insostituibile nella sua capacità di vedere Jack per ciò che è, esattamente come solo Madeleine sapeva fare. Ma proprio perché non è lei, Georges è anche in grado di vedere ciò che Madeleine ha sempre voluto ignorare...

Onestamente non so che dirvi. Non posso dire che non mi sia piaciuto, ma... nemmeno che mi sia piaciuto veramente. A prescindere dai personaggi e dal contesto vi sono moltissime chiavi di lettura. Io ne ho una personale, che dirò nel caso qualcuno la volesse sapere, ma che non scriverò qui per non influenzare nessuno!
Siamo a giugno, fra poco inizia l'estate, è breve, costa anche poco.. leggetelo!


 



domenica 7 giugno 2015

I misteri di Chalk Hill


Inizio: 3 giugno 2015
Fine: 4 giugno 2015
Ad essere onesti mi ha catturato la copertina. Mi succede di rado (ultimamente più spesso a dire il vero) di scegliere un libro dalla copertina, ma questa volta era troppo espressiva. E non appena ho avuto conferma che il periodo storico fosse quello al quale l’immagine rimandava, l’ho comprato. Io non ho letto Jane Eyre, quantomeno non ancora, perché mi sento un po’ in vergogna ad ammetterlo, sento la laurea in lingue e letterature ribellarsi. Non mi piace fare paragoni tra autori ed epoche, ma se dovessi darvi un’idea il più verosimile possibile, vi dire che questo libro è un delizioso… cocktail: una parte di Jane Austen, una mezza di Ann Radcliffe, una spruzzatina di Conan Doyle con un retrogusto alla Tracy Chevalier. Me lo immagino questo calice ghiacciato, con un liquido di un bel rosso scuro ciliegia, tendente al nero del mirtillo, rinfrescato dalla menta, con quella sua bella fogliolina verde.

Detto per inciso: lo adorerete.

1890 Dover, Inghilterra. Charlotte Pauly sta attraversando la Manica ricca di timori e nuove speranze. Guarda alla costa attraverso la foschia domandandosi cosa ne sarà di lei che è stata così coraggiosa da abbandonare Berlino e la sua patria per andare a fare l‘istitutrice nel Surrey, a Chalk Hill. Grazie alle ottime referenze ha trovato velocemente impiego presso la casa Sir Andrew Clayworth, che sembra particolarmente esigente nell’educazione di sua figlia Emily, di soli otto anni, la quale attraversa un periodo difficile, avendo perso la madre da poco più di cinque mesi. Un impedimento improvviso bloccherà Charlotte in quel di Dover per una notte, trovando ospitalità presso la casa della signora Ingram. E quella strana notte è solo l’inizio; la mattina successiva Miss Pauly raggiunge la stazione di Dorking e da qui, in carrozza arriva alla bellissima tenuta di Chalk Hill. La casa è gestita impeccabilmente dai domestici ed Emily, con sua sorpresa, ha ancora la tata. Nora infatti non è stata allontanata a causa della morte di Ellen, evitando di causare altri traumi alla piccola. Ma c’è qualcosa in quella casa, qualcosa nei domestici, in Mrs Evans (la governante) ed in Wilkins (il cocchiere) che non torna. Sembrano custodire segreti inconfessabili.

1888 Londra. Tom Ashdown ha perso la moglie e la sua vita si è decisamente fermata. Senza Lucy nulla sembra avere più importanza. Alle volte gli sembra di percepirla seduta sulla sua sedia. intenta a ricamare nell’angolo mentre lui scrive recensioni ed articoli per i giornale. Ovviamente però, quando si volta, lei non c’è. Inaspettatamente riceve la lettere di un caro amico, John, che ha bisogno del suo aiuto. La cognata, Emma, sembra essere vittima di un ciarlatano, un tale di nome Belvoir. Egli afferma di poter parlare coi defunti e continua a spillarle danaro consegnandole preziosi messaggi del fidanzato Gabriel, morto mesi prima in un incidente. Loro si si augurano che lui, possa ad partecipare una seduta e poi scriverne sul giornale, smascherandolo. La strada che intraprende, non senza riserve personali e timori, lo porterà a collaborare con un gruppo di scienziati, la Società per la ricerca psichica, capeggiata da Henri ed Eleanor Sigdwick.

A Chalk Hill Charlotte deve sgomitare non poco per imporre la sua figura di istitutrice. Emily è una bambina meravigliosamente intelligente e collaborativa, tuttavia in casa vige un certo ostruzionismo. Il nome di Ellen ed in generale nulla che la riguardi può essere nominato; nessuno può parlare di ciò che è successo quel giorno al fiume Mole e Sir Andrew si mostra particolarmente rigido, freddo e irremovibile; Wilkins quasi non le parla più e Mrs Evans è apertamente ostile. Inoltre Nora, la tata, timorosa di essere scalzata dalle grazie di Emily, fa di tutto per sottrarre la bambina all’istitutrice. Nonostante le avversità Charlotte riesce a mettere la sua posizione in chiaro ed a cominciare il suo lavoro. Trascorrono assieme momenti spensierati, fanno passeggiate e piccole gite, oltre a studiare quotidianamente. La serenità della piccola però è costantemente messa a prova da incubi notturni, accompagnati da fenomeni strani (finestre aperte, macchie di umido, foglie sulle scale) che portano Miss Pauly a sospettare che Emily soffra di sonnambulismo. I suoi incubi, i suoi momenti di assenza, nei quali, seppur desta, sembra essere lontanissima con la mente, potrebbero derivare dalla difficoltà di elaborare un lutto (quello della perdita della madre) dato che il padre le ha fin da subito impedito di farlo. Charlotte, dopo aver cercato informazioni senza ottenere alcuna risposta decide di chiedere in giro. Tutti sono riottosi a raccontare della tragedia di Chalk Hill, ma alla fine appare chiaro che Lady Ellen si sia tolta la vita gettandosi nel fiume. Tutti la ricordano come una madre estremamente premurosa ed affettuosa con Emily, della quale si è sempre occupata personalmente (chiaramente controcorrente rispetto alle usanze). Perché mai una donna così giovane, benestante ed innamorata della figlia dovrebbe suicidarsi? Miss Pauly intuisce che la verità potrebbe essere molto più scomoda e nascosta di quello che appare. Nonostante i battibecchi con Sir Andrews e qualche scaramuccia con Nora, la vita a Chalk Hill sembrerebbe trascorrere abbastanza bene, se non fosse per gli episodi notturni di Emily. Qualcosa evidentemente disturba il sonno della bambina che comincia, seppur con timore, a rivelare di parare con la mamma. E non solo: Emily giura che sua madre la va a trovare quasi tutte le notti e che presto la porterà via con sé… le allarmanti rivelazioni della bambina, alcune informazioni delle quali non avrebbe potuto realmente disporre spingono suo padre a chiamare in causa, segretamente,  la Società per la ricerca psichica. Thomas Ashdown dovrà stabilire se la piccola Emily abbia o meno poteri paranormali. In alternativa, la piccola potrebbe avere una malattia mentale. Nulla di buono incombe su Chalk Hill. E Charlotte è esattamente al centro della tempesta che sta per scatenarsi.

Non vado oltre, perché proprio non si può e vi ho già detto molto di più di quanto avrei dovuto (ma non voluto!). questo libro è davvero avvincente e per nulla scontato. L’epilogo ha dell’incredibile, non lo avrei mai nemmeno preso in considerazione e pertanto mi ha completamente sbalordito. Leggetelo, a me è durato poco meno di ventiquattro ore tra le mani, scommettiamo che ci metterete anche meno?

Un giorno questo dolore ti sarà utile


Inizio: 5 giugno 2015
Fine: 7 giugno 2015
Ho letto il titolo e mi è scappato da ridere. Una risata amara di chi non crede più. Di chi ha capito che le cose vanno come devono e basta, alla faccia del merito e dell’impegno. La mia migliore amica, però, mi ha un po’ spinta con quel fare da “che male potrà mai farti”, così, complici gli sconti da Giunti, l’ho preso. Non mi ha fatto male e non mi ha fatto bene, però mi è piaciuto molto. Sono d’accordo con Valeria Parrella che, in quarta di copertina, ha scritto che il personaggio di James resterà nella memoria. Lui non rappresenta il classico diciottenne, anzi rappresenta una fetta molto esigua di diciottenni; mi spiego meglio: è una fase un po’ particolare della vita di ognuno, quel passaggio forzato tra l’adolescenza e la vita adulta. Spesso sorgono contraddizioni negli individui, uno spirito di avversione verso tutto, di ribellione, di isolamento, di eccessi… tuttavia una piccolissima parte di ragazzi si sente esattamente come James. Introspettivi al limite, eccezionalmente intelligenti, incompresi e … inutili. Quell’inutilità tipica di chi non sa bene cosa fare della propria vita. Scontrosi, con un pizzico di cattiveria, di dispetto per meglio dire. E qui, secondo me sta la forza di questo personaggio eccentrico nel suo sentirsi banale e eccezionale nelle sue riflessioni, non così impossibili per un diciottenne, semplicemente rare (anche lessicalmente parlando). Non ho idea se James alla fine vi risulterà sgradevole o vi piacerà… ma credo che indubbiamente vi lascerà qualcosa.

New York, 2003. James Dunfour Sveck ha diciotto anni e le idee decisamente chiare. Non gli importa di nulla e non gli va a genio niente, a partire dalle persone. Ma attenzione: questo senza alcuna accezione negativa, tutt’altro! Un vivi e lascia vivere, diciamo, con un tocco di sociopatia da incompatibilità. Perché James ha una profondità tutta sua e la banalità dei più lo sconforta, lo offende e lo deprime. A partire da quella sua (non tanto ordinaria) famiglia. Sua madre Marjorie (che ha già due divorzi alle spalle) è rientrata dopo soli quattro giorni di luna di miele perché Barry, neo (e prossimo ex) marito le ha scucito di nascosto la bellezza di 3000 dollari in una sola notte, suo padre Paul Sveck, invece sembra non dargli tregua parlando dell’università e della possibile omosessualità di James; sua sorella Gillian vive in un mondo tutto suo scaturito, in parte, dalla relazione che ha con uno dei suo professori all’università, Rainer Maria Schultz. Senza troppi giri di parole James ci introduce nel suo mondo, parlando in prima persona. Ci porta con sé nella Galleria d’arte moderna della madre, gestita in modo abbastanza autonomo da John Webster e dove anche lui lavora; ci accompagna al quarantanovesimo piano a pranzo con il padre sempre così attento a tutto da non accorgersi di niente; ci porta a conoscere Nanette, la nonna di ottantanni che lui semplicemente adora, l’unica assieme a John che James stimi e con la quale parli volentieri. Eh già, perchè lui, di parlare, solitamente non ha voglia. Non ama farlo tanto per dar aria alla bocca: se uno parla deve avere qualcosa di interessante da dire, diversamente tanto meglio sarebbe che tacesse. Non mette in voce i pensieri anche perché non esiste un canale perfetto e diretto che li renda come realmente sono: nella comunicazione il linguaggio mentale viene tradotto e ciò che è tradotto non è mai uguale all’originale. Non parla, non racconta di sè James, non sembra avere amici, non esce (se non per portare fuori Mirò, il cane), non va dove normalmente andrebbe un diciottenne, non ha interesse per nulla che non siano l’arte o la lettura e soprattutto non è felice. Non sa nemmeno lui quale sia motivo, ma, pur facendo ciò che desidera, non è soddisfatto. La situazione precipita durante un viaggio organizzato a Washington, al quale deve partecipare per un concorso nazionale. Lui, che aveva fatto di tutto per esserne escluso, scrivendo un tema a dir poco politically uncorrect, si ritrova invece ad essere scelto e spedito negli uffici governativi in gita. Impossibilitato a reggere oltre il terzo giorno, semplicemente scappa, prende una stanza in un albergo e tanti saluti. La goccia ha fatto traboccare il vaso. James vince così un biglietto di sola andata per la psichiatra Adler, che come tutti gli altri sembra non avere alcun tipo di influenza su di lui, l’unico risultato, al massimo è quello di indisporlo, irritarlo e farlo sentire un bambino all’asilo. Non è che tutto sia da difendere in lui: James non si sforza di andare d’accordo con gli altri, di socializzare, di conformarsi; spesso sottovaluta i sentimenti degli altri e il dolore che le sue azioni possono causare. Insomma, è il classico diciottenne problematico, sotto questo aspetto.

Eppure mi è piaciuto. Mi è piaciuto moltissimo, sia lui che il libro in sé. Ho letto molte recensioni negative, ma credo che il libro sia molto meno banale di quanto non possa sembrare. Forse bisogna avere l’attitudine giusta, lo spirito giusto, o forse semplicemente basta essersi sentiti nella vita un po’ come James. Cosa che a me è capitata parecchio e ancora molto spesso capita. Essere incompresi, talmente tanto spesso che alla fine non si ha nemmeno più voglia di spiegarsi e si diventa anche un po’ psicosnob… della serie “tanto nessuno mi capirà mai”. È triste da dire, ma è assolutamente vero: perché la maggioranza delle persone ha bisogno di mettere gli altri in boccette, di etichettare stili e comportamenti, forme di pensiero e di vita, di farli rientrare in schemi preconcetti (con i preconcetti che cambiano di secolo in secolo ma sempre preconcetti sono) perché diciamocelo è la natura umana che ce lo impone. Quello che non possiamo capire e classificare ci spaventa. Ma perché? Alle volte non basterebbe solo essere? A quanto pare no. E questo è il male di James, dal quale forse non guarirà mai. Voglio lasciarvi con una frase che ho trovato bellissima e molto significativa:

Sono rimasto zitto. Aveva ragione e lo sapevo, anche se questo non cambiava nulla. La gente pensa che se riesce a dimostrare di avere ragione l’altro cambierà idea, ma non è così”.

venerdì 1 maggio 2015

Il sucidio perfetto

Inizio: 30 aprile 2015
Fine: 1 maggio 2015
 
Quando ho comprato e letto “La mossa del cartomante” non sapevo che Matteucci avesse scritto prima “Un suicidio perfetto”, libro primo delle avventure di Lupo Bianco, alias Marzio Santoni. La mia impressione comunque fu positiva: il libro è godibilissimo anche senza avere letto il primo. Non ci sono particolari rimandi. Nonostante questo, anche se di solito non si va a ritroso, decisi di comprare anche questo. Giusto per il gusto di leggere un altro giallo mondano e vedere come l’autore introduce per la prima volta a noi lettori il suo personaggio.


Valdiluce. È un inverno anomalo, non nevica, anzi fa caldo. Lupo Bianco quasi non riconosce quelle montagne, sulle quali ha trascorso gran parte della giovinezza e sulle quali è voluto tornare a trent’anni perché la città gli andava stretta. Lupo Bianco è un uomo di montagna, nato e cresciuto con la neve sotto i piedi, le camice di flanella e l’aria fresca; ha un odorato sviluppatissimo, che gli consente di riconoscere moltissimi odori diversi. Da qui il suo soprannome. Una stupenda carriera, però, non ha potuto nulla contro il richiamo delle montagne. Marzio Santoni da pochi mesi si è fatto riassegnare al suo paese, come ispettore responsabile di Pubblica Sicurezza, ridicolo, considerando le quattro anime e mezza di Valdiluce, dove il peggior crimine possibile sembra essere l’ubriachezza (e nemmeno molesta) da Ginpin. Ma mentre passa attraverso il piccolo paesino sulla sua Vespa non sa che la morte può annidarsi anche su un paesino arroccato sulle montagne, noto solo per le sue piste da sci. Alla stazione degli autobus aspetta di vedere e salutare Elisabetta, la donna con la quale ha trascorso un’indimenticabile settimana; lei e le sue amiche torneranno dai loro mariti a Vissone sul mare, dopo aver passato una settimana bianca a Valdiluce. Delle ragazze però non c’è traccia. Pochi minuti dopo Agostino Uberti, custode del Residence Bucaneve chiama Lupo Bianco. Al suo arrivo la presenza del falco Trogolo che volava basso con la sua catena legata alla zampa la diceva lunga: portava male, era presagio infausto, era una storia di paese, ma quasi sempre le storie di paese ci prendono. Un forte odore di gas esce dall’appartamento delle ragazze: Angela, Stefania, Flaminia ed Elisabetta sono morte. Tre sono adagiate sui loro letti, come se non si fossero nemmeno accorte, solo Elisabetta sembra avere opposto resistenza a qualcosa… ma a cosa? Marzio è costretto a mettere da parte le sue emozioni, che lo coinvolgono decisamente troppo, rimettersi la divisa e chiamare le autorità. Con l’aiuto del giovane, inesperto e spaventatissimo collega Kristal, intanto, isola la scena… del crimine. Tutto farebbe pensare ad un suicidio, ma la posa e l’espressione di Elisabetta, indicano che quantomeno lei non avesse nessuna voglia di morire. Le istruzioni del supercapo Antonello Soprani sono abbastanza esplicite: Valdiluce è un luogo di villeggiatura, il caso va archiviato al più presto, che si tratti di incidente, oppure di suicidio collettivo. La patata sta diventando bollente, le indagini dovevano essere scrupolose, ma bisogna muoversi rapidamente e senza sollevare troppa polvere; come se questo non fosse abbastanza, mezza Valdiluce ha flirtato con le ragazze e l’altra metà lo sa. Marzio non vuole nemmeno pensare ad un omicidio… più per emozione che per altro. Quando Giordano, il proprietario del ristorante Pino Rosso, gli mostra le riprese della sera prima, Santoni non crede alle sue orecchie quando sente Angela dire: “piuttosto che tornare a casa ci suicidiamo, tutte e quattro assieme”. Chiaro, limpido, ribadito più volte. Erano sbronze, si, ma sembravano serie. Uno a zero per Soprani. Palla al centro.
Convocati mariti, convocati gli amanti (che si sono auto convocati per paura), i risultati dell’autopsia rivelano che le ragazze avevano un tasso alcolico elevatissimo e che sono morte per asfissia. Eppure qualcosa non torna. Marzio non riesce ad accettare l’idea che Elisabetta possa essersi uccisa (e nemmeno le altre); ha notato troppe incongruenze tra l’ultima giornata trascorsa con lei e quello che ha visto nell’appartamento, ne ha notate altre vedendo il video. Qualcuno deve averle uccise, ma chi? Nemmeno l’amante (ex amante) di Elisabetta, il Cuoco Franz Binetti, sembra poter essere collegato all’omicidio. Soprani spinge la chiusura delle indagini: Valdiluce è già stata additata dai turisti come meta poco sicura, bisogna recuperare i buon nome del paese oppure il paese morirà abbandonato a se stesso. Santoni brancola nel buio, arrivando per fino a dar retta ad Olimpia, la sensitiva del paese. Ma come si fa a credere a queste cose? Un caso non si risolve con il paranormale! Ma lei insiste: ha visto l’assassino, ha una tuta viola. Grazie, come circa tutti e 50 i maestri di sci di Valdiluce, visto che la loro divisa ha quel colore. Come se già tutto questo trambusto non fosse abbastanza, al rifugio Sassone si smarriscono Piero e Paolo, due bambini, i figli gemelli del sindaco Tonioli. Lupo Bianco, che li sta cercando viene brutalmente aggredito e scaraventato in un burrone…
Meravigliosi i personaggi di questo romanzo. Santoni è il protagonista principale, ma sono gli altri, i compaesani i veri protagonisti: il benzinaio Paride, il Dogana, chiamato così perché chiunque passi “deve avere qualcosa da dichiarare”, il prete, l’imponente barbuto Don Sergio, che di santo non ha nemmeno lo stinco. Olimpia, la sensitiva. Osvaldo, il noleggiatore di sci, che insieme alla moglie Morena ed al cane Dik formano un piccolo microcosmo sociale. E poi ancora Agostino, il mattarello del paese, che non fa del male a nessuno e che tutti proteggono e accettano, Giordano, il ristoratore, etc..
Si potrebbe andare avanti così, perché la vera ricchezza di questo romanzo è l’ambientazione. Matteucci vuole si raccontarci un giallo, ma in realtà quello che vuole realmente mettere in scena è la vita di paese per quello che è. Chiunque abbia vissuto in un paese (prima che ci fosse il fuggi fuggi dalle città verso i paesi) sa cosa significhi conoscersi tutti, sapere che tutti sanno tutto, che è come trovarsi in un grande telefono senza fili.. qualcuno dice di avere trovato un gattino abbandonato, alla fine del giro di telefonate c’è una tigre che gira in paese ed ha già ucciso tre persone. Si conoscono abitudini, vizi, la gente parla alle a spalle e sorride davanti, ognuno ha i propri segreti da tutelare e quindi sputa in giro quelli degli altri…
 

giovedì 30 aprile 2015

Moscerine

Inizio: 7 gennaio 2015
Fine: 14 gennaio 2015
Recensire Anna Marchesini è mettere bocca su un mostro sacro. Quel che vorrei fosse chiaro senza troppi giri di parole è che questo libro… non è semplicissimo. Non che non sia alla portata di tutti, ma va capito. Va capita la donna dietro il libro e, a tratti, anche questo sembra non bastare. Ho letto questo libro due mesi fa ed ho atteso molto per scriverne. Va digerito. Diversamente non se ne può parlare. Nonostante si proponga come un libro a forte carica umoristica, questi racconti nascondono una vena emotiva, quasi triste, un’introspezione paurosa, una connotazione umana a dir poco eccezionale ed una consapevolezza della vita che fa quasi timore. Anna ha messo in parole la vita stessa, con la sua carica di ironia, il suo fare secco e stizzito, il ciondolio della testa (che non si vede ma si immagina) e fiumi di parole. Già, le parole. Tante, tantissime, una dietro l’altra senza una virgola. Letteralmente. Tanto che ci ho messo non poco ad abituarmi all’andamento della lettura; la punteggiatura è la pausa degli occhi, della mente, del senso … Anna non ne mette, mette elenchi di parole a profusione, come acqua che abbia sfondato una diga. Giù, dritta a valle. Non sono necessariamente climax, sono spesso accostamenti, sinonimi, che compongono una varietà lessicale amplissima. Solo Piperno mi aveva messo così in difficoltà. Fanno ridere questi racconti? Onestamente, non tutti. Alcuni sono molto forti emotivamente, trattano temi troppo importanti, indagano troppo le fragilità per poterli definire divertenti. Sono commoventi, toccanti. E gli altri? Bè.. Dipende da cosa intendete. Alcuni si, fanno ridere, ma vi dovete immaginare lei, seduta su una sedia, a teatro, che ve li racconta. Con i suoi capelli arruffati, i suoi occhiali volutamente bassissimi sul naso e quella vocina che sale sale sale. Non leggete questi racconti se non conoscete Anna Marchesini. Piuttosto guardatevi un suo video prima. Mi rifiuto di recensire questi racconti… perché non è la storia in sé che colpisce, mail modo in cui lei la racconta. Affinché, però, possiate avere un’idea sul filo conduttore che li lega, vi dirò qualche parola di ognuno e cercherò di farlo… nello stile di Anna.

La signorina Iovis – come si fa, come si fa dico io, a lasciar perdere l’amore? Anche se la campana suona in là con gli anni, come non rispondere? Ed eccola lì, la signorina Iovis, seduta al suo sportello alla posta, fissata da quel bell’uomo lì. Adolfo Perres, maestro di scuola, aveva sgomitato (ma educatamente) per farsi strada nella vita della signorina Iovis. E venne il dì della festa…

Lisetta – non è che alla gente piaccia star sola.. ma non è nemmeno che ci si possa accompagnare a chiunque. L’amore non si comanda e spesso basta una volta, quella buona, a distruggerci. E allora ecco, stare soli diventa l’abitudine, diventiamo come vecchie querce, sedute, con l’edera avviluppata, un po’ come impedimento un po’ come scusa. Quand’ecco che qualcuno ci smuove, ci muove e rimuove dal nostro fossilizzato trono di legno. Ci sono persone che guardano alla vita con diversi atteggiamenti e ci sono persone che hanno lo stesso atteggiamento e guardano più vite possibili, quasi mettendole a confronto… (questo è il racconto più toccante e commovente)

L’odore del caffè – eccoli lì, gli Svizzeri di via del Corso. Proprio loro, quelli che ti macinavano il caffè davanti, in negozio. Ma il mercoledì era il giorno sacro della tostatura del caffè: misterioso procedimento nascosto nel retrobottega, al quale nessuno era ammesso. E tutto l’aroma si spandeva come un nuvolone carico di pioggia: greve, pesante, denso, invadente.. inebriante “ed era subito l’Avana era viva Zapata era la Rivoluzione era la Repubblica di zucchero e cannella”(pag. 72).

La torta nuziale – troneggiava bianca, candida, eterea, eburnea. Torreggiava nell’angolo della cucina, lei, la grande casta protagonista, lei, l’ultima ad entrare per la gioia di tutti. Quella che nessuno avrebbe mai osato rifiutare, anche se non ci sta più niente, anche se “no grazie, basta così”, anche se si son fatti incartare gli avanzi, anche se. “Quei cinque piani di panna soffice, un grattacielo tirato su con il latte di capra, di capra si erano raccomandati, senza neanche sapere se si potesse fare o se invece si trattasse di una di quelle inqualificabili castronerie eccentriche ed irresponsabili tipiche dei committenti urbani, dunque ignoranti circa i procedimenti della produzione artigianale”. Bianca che più bianca non si può.. o forse non proprio, non sarà mica una mosca quella?!

Poi si vedrà – mi sposo o non mi sposo? Che faccio Flora? E lei, ingrata, questa volta, il becco non ce lo vuole mettere; ma come si fa ad abbandonare così una sorella che tutto nella vita ha fatto, tranne vivere. Flora ha sempre preso le decisioni per Nelda ed ora, niente, eccola lì la poverina, in abito da sposa, prima di andare all’altare supplichevole, desiderosa come sempre dell’aiuto che Flora ha sempre elargito generosamente. Insomma, suvvia, una parolina, chessssaràmmai! Un si o un no, non così difficile, mal che ti vada Flora potresti anche scegliere a caso, basta che le dici che cosa deve fare…

Le evidenze – Maria Luce Colli, pregiatissima e stimatissima professoressa di matematica. Bella, bellissima. Donna contenuta con un passato non facile, la professoressa Maria Luce se n’era andata via dalla sua Basilicata ed era giunta in terra veneziana con il piccolo Emanuele. La disonorata in casa sua, timoratissima e rispettabilissima in terra lagunare, lavora sodo; l’unico su interesse è il figlio, giornate scandite, mai uno sgarro, sola soletta se non per l’amato pargolo. S’accontentava d’esser trasparente, anche se insomma, non le riusciva poi così bene. Ma quando Emanuele s’ammala agli occhi, Maria Luce esce drasticamente dalla sua felice monotonia…

Il salotto – Madame Isidori è rientrata dalla sua residenza parigina da un paio di giorni e già teme per la sua pelle. “Sono molto cattive quest’anno le zanzare?”. La povera vedova veniva costantemente fatta bersaglio da quelle odiose alate bestiacce. La cara donna aveva il sangue dolce e le orride belve lo sapevano, di grazia che tortura! Ma Madame Isidori impavida non rinuncia al suo salotto nemmeno in piena estate, troppo importanti i suoi illustri ospiti, o forse no, ma va bè, l’importante è la mondanità. Che se ne parli che se ne parli! Della sua fastosità, degli stuzzichini e dei discorsi, che donna intelligente! Che donna generosa! Che donna amabile!! Peccato sia costantemente bersagliata da quelle inutili, maledette zanzare…

In punto di morte – finale già scritto, nessuno scampo. Che senso ha chiedere come andiamo oggi? Se siamo qui andiamo, quindi bene, ma tanto non si ha scampo quindi.. un’ora in meno. Ma il nipote dell’onorevole Casimiro Mei proprio non la smetteva di ripetere quella cavolo di frase ogni volta, benedetto ragazzo. Un po’ s’assopiva un po’ aveva imparato a dilatare il tempo: perché un’ora è solo un’ora se la vedi così, ma se cambi punto di vista sono 60 minuti, che per 60 secondi a minuto fanno 3600 secondi, che insomma, son di più. Questione di punti di vista. Come quella carezza appena percepibile, appena accennata, quel saluto da parte del portiere: oh che gioia, Casimiro si rallegra, pieno di riconoscenza e stupore.

Cirino e Marilda non si può fare – due stelle superior Pensione Smeraldo. Eccolo lì, Cirino Pascarella, disoccupato ormai da tempo, ha dovuto vender la sua casa ed ora vive lì all’ultimo piano del palazzo. Che vita triste, povero professore. La signora Olimpia, tenutaria, non lo lascia in pace, tanta è la voglia sua di maritare la figlia Marilda: “tanto caruccia a modino faticatrice tanto brava servizievole obbediente pulita ordinata donna di casa precisina taciturna!”. Da chi abbia preso non si sa. Ma Cirino Pescarella è perso nei suoi pensieri, tristi, lontani, nemmeno la sente Olimpia, nemmeno la vede Marilda…

 

Non voglio aggiungere altro. Credo che valga la pena di leggerli, anche se non sarà proprio una lettura facile; vale la pena sentire cos’ha da dire questa donna sulla vita e i suoi stereotipi, sulle paure che ognuno di noi ha o pensa di avere e su quelle che crediamo di non avere. Una grande lezione, grazie Anna.