martedì 25 agosto 2015

Pantani è tornato: il complotto, il delitto, l'onore.

Inizio: 6 luglio 2015
Fine: 12 agosto 2015

Qualsiasi cosa si voglia dire dopo aver letto questo libro, rimane un’unica certezza a riguardo: è una lunga denuncia, chiara, malcelata e assolutamente provocatoria. E meno male che è così! Viste tutte le cose contro le quali Davide De Zan è andato a sbattere in dieci anni, direi che questa lunga denuncia è quantomeno un atto dovuto, Pantani o meno. Una atto dovuto nei confronti della legge, che ha fallito e un atto dovuto nei confronti dell’uomo, che si è trovato invischiato in tutto questo. Il perché, probabilmente, non lo sapremo mai. Prima di cominciare però, vi vorrei dire cosa non ho trovato. A parte qualche ricordo commovente del Pantani uomo, disponibile, gentile, affettuoso e molte riflessioni dello stesso Davide, non ho trovato Marco Pantani dal 1999 al 2004. Trovo ben descritti i fatti di Madonna di Campiglio e di Rimini… ma di Marco Pantani ‘99/04 nada. Magari gli affezionati non ne hanno bisogno, ma questo libro è fatto per chiunque voglia vederci chiaro in una vicenda che di chiaro ha ben poco, e, forse, senza speculare (De Zan che specula su Marco Pantani proprio non ce lo vedo) si poteva anche dare qualche informazione in più. Chi meglio di lui poteva spiegare, senza esagerare nei dettagli? Invece non lo ha fatto e, questa, a mio parer, è una mancanza… e nemmeno tanto piccola. Comunque, per amore di chiarezza ed ordine, il libro verte su due macro argomenti: l’arresto di Pantani a Madonna di Campiglio ed il conseguente ritiro dal Giro d’Italia (ormai praticamente vinto) del 1999 per un’accusa di doping e l’omicidio (perché omicidio fu) di Marco, a Rimini, nel residence le Rose, il 14 febbraio 2004. Attraverso dieci anni, partendo da una promessa a mamma Tonina, Davide De Zan raccoglie informazioni e testimonianze assieme all’avvocato (e poi amico) Antonio De Rensis, difensore della famiglia Pantani, che porteranno nel 2014 alla riapertura delle indagini per l’omicidio e non il suicidio di Marco Pantani. Se venisse dimostrato che Marco fu ucciso perché “scomodo” si potrebbe anche risalire al mandante della scandalosa messa in scena dell’ematocrito alto a Madonna di Campiglio, volutamente alterato da qualcuno, affinché Pantani fosse fuori dai giochi. Perché come dice De Zan, a Madonna di Campiglio hanno ucciso il campione, a Rimini hanno ucciso l’uomo.

Essendo quella del buon Davide un’indagine a tutti gli effetti, non ha molto senso che io la sintetizzi. Non saprei cosa dirvi e cosa non dirvi. Tutto è talmente importante, ogni tassello, che son sicura: commetterei degli errori. Tuttavia farò del mio meglio e per non peccare nei confronti di De Zan, apporrò tra parentesi quadre tutto ciò che so o che ho dovuto colmare e che lui non dice, vedendo di fare un po’ di luce anche per voi.

Devo decidere, perché non è semplice da fare, se questo libro sia stato scritto dal giornalista, dall’amico o da entrambi. Fondamentalmente propendo più per l’amico, che non per il giornalista, proprio per alcune mancanze che un giornalista non si sarebbe assolutamente concesso. Con questo non intendo dire che De Zan sia stato di parte o fazioso, assolutamente no; espone i fatti con chiarezza, porta prove, pareri, spiega minuziosamente come sono state fatte le indagini (in modo scandaloso!!). Depone assolutamente per la verità. Non nega mai che Pantani abbia preso o fatto uso di droga la mattina del 14 febbraio 2004, o la notte precedente la sua morte, semplicemente dimostra come risulti totalmente assurda la ricostruzione fatta dalla polizia. Però questa cosa, ad esempio, cioè che non spieghi perché Pantani fosse arrivato a abusare della cocaina, mi ha disturbato parecchio. Mi è sembrato di non potere capire a fondo, di non essere messa al corrente di tutto. Ad ogni modo ho cercato di calarmi nei suoi panni e di comprendere che lo scopo del suo lavoro è stato fin da subito quello di verificare che non esistesse un’altra verità, cosa che effettivamente esiste eccome. A pensarci bene, al fine ultimo del libro, al lettore non interessa se Pantani abbia fatto o no uso di droga nella sua vita; quello che semmai è utile e giusto è sapere se la legge abbia effettivamente fatto fino in fondo il proprio dovere… e questo non perché Pantani è Pantani, ma perché Pantani è un uomo normale e la legge è uguale per tutti. Perché un ragazzo, che ha fatto molti controlli durante il Giro d’Italia (ed è sempre stato pulito) perché ha la Maglia Rosa sulle spalle, non si dopa a due giorni dalla tappa finale; perché uno che ha qualcosa da nascondere, non accetta di sottoporsi ad un esame palesemente svolto in modo scorretto, a cuor sereno; perché uno che la sera ha l’ematocrito a 47, non può averlo a 53 la mattina dopo e di nuovo a 47 il pomeriggio; perché nessuno lo ha difeso e nessuno si è opposto. [Perché nei giorni e negli anni in cui si distruggeva Pantani, uno come Armstrong veniva coperto da medici, giudici, etc pur essendosi sempre dopato. Portato in trionfo come l’atleta esempio, che aveva sconfitto il cancro ed era tornato a vincere. Lui, che poi ha ammesso di essersi drogato sempre, prima e dopo il cancro (qualche volte anche durante la cura!). Sempre. Sia chiaro: le vicende non sono legate, ma è per dire che c’era chi veniva protetto nell’illegalità e chi veniva accusato di cose che non poteva avere fatto! Le due cose sono avvenute con la stessa facilità]. E poco si sa su chi veramente abbia voluto fermare Marco, in questo modo atroce, entrando a gamba tesa. Si conoscono i motivi (si scommetteva tutto sul secondo, dato per spacciato e si intascavano MILIARDI di lire) ma non i mandanti e forse nemmeno chi abbia alterato le analisi. Nomi che forse non avremo mai, intanto l’importante è che si sappia.

Eppure, anche se ignobile, da sé questa cosa avrebbe anche potuto fermarsi lì. In realtà innescò una tragedia maggiore. Marco non accettò mai di essere stato ferito nell’orgoglio e nella dignità di atleta e di uomo, risaltò in sella, si, ma non fu più lui. [Forse lì cominciò davvero a drogarsi, forse invece no. Ancora adesso c’è chi pensa che si ritirò dal Tour del 2000 per evitare il controllo anti-doping, anziché per una dissenteria. Fosse anche stato dopato, Armstrong lo era più di lui e il Tour era perso comunque. Certo è che la psicologia di Marco era devastata: lui fisicamente c’era, ma la cosa si fermava lì. Sappiamo che il 2003 fu un anno particolarmente duro, con il ricovero in clinica per depressione ed alcolismo. Di droga non si parla, nemmeno l’ombra. La droga salta fuori solo  quel 14 febbraio 2004]. Fino al tragico epilogo, in quella camera nel residence di Rimini tristemente famoso. E se avete pensato di averne sentite abbastanza e credete di essere sufficientemente indignati, arrivati fin qui, preparatevi al peggio. La morte di Marco Pantani è una farsa ancora peggiore dello sgarbo a Madonna di Campiglio, primo perchè lui è morto, secondo perché chi doveva indagare ha fatto, per usare un eufemismo, un gran casino [volontariamente? Involontariamente?]. De Zan, con perizia e dovizia di particolari spiega come sono state fatte le indagini (documentate peraltro!), in quale modo approssimativo e totalmente scevro di competenza siano state raccolte (o meglio scansate) le prove. Come i testimoni vengano smentiti dai fatti, o da altri testimoni. Come molta gente sappia e non parli. Come il corpo di Marco Pantani sfidi qualsiasi legge fisica e medica (secondo il risultato dei reperti). Come non sia stato possibile porre rimedio ai danni fatti sulla scena del crimine, né sarà mai possibile porre rimedio alla morte di un uomo. In un crescendo di schifo, perché altra parola non mi viene, ci si rende conto dell’ingiustizia madornale, aggravata dalla leggerezza, che un’intera famiglia ed una nazione hanno subito.

Perché siamo tutti Pantani. Perché può toccare a noi essere vittime. Se chi dovrebbe indagare per capire, non fa bene il proprio lavoro, siamo spacciati. Tutti. Perché non è il torto o la ragione il punto fondamentale della questione, ma il modus operandi. Adeguate indagini sono solo il punto di partenza, il requisito minimo. E vorrei chiarire che non è la solita lotta guardie contro il resto del mondo. Assolutamente no. Non ci sono buoni o cattivi, ma solo gente che fa il proprio lavoro. Marco era un ciclista, scalava le montagne e lo faceva bene; le forze dell’ordine indagano, cercano di trovare i bandoli delle matasse, approfondiscono, è quello il loro lavoro. Non è facile, alle volte si sbaglia, è umano. Ma ci sono sbagli che si possono evitare, rimandare, non fare… io non voglio nemmeno pensare a persone corrotte, voglio fermamente credere che sia stata solo leggerezza, inesperienza, superficialità, piuttosto che insabbiamento. Voglio credere che davvero abbiano pensato che fosse suicidio, che davvero a nessuno sia venuto il dubbio che potesse essere altro, lì, in quella stanza. Ma dopo avere saputo che Marco quel giorno aveva chiesto alla reception che venissero chiamati i carabinieri (due volte) perché qualcuno lo molestava, dopo avere saputo che qualcuno c’è stato in quella stanza e chissà per quanto tempo (nonostante i testimoni neghino), dopo avere capito quanto fosse palese la presenza di altre persone, dopo avere capito che Marco è stato ucciso, non puoi non pensare che si poteva ancora rimediare, se chi di competenza avesse messo più zelo. E ancora più retroattivamente, se quei benedetti carabinieri fossero stati chiamati, si poteva evitare. Il dubbio viene e diventa quasi certezza. Lo diventa soprattutto quando due magistrati di due città diverse si chiedono, a distanza di 10 anni, se quel giorno sia stato fatto tutto il necessario per scrivere la parola suicidio sul dossier Pantani M.

E riaprono il caso.

E tu capisci che si sono risposti di no.

lunedì 24 agosto 2015

Il profumo

Inizio: 2 agosto 2015
Fine: 5 agosto 2015

Lento. Estremamente lento e viscoso. Questo libro è rimasto per qualche anno sulla mia libreria. Come dico sempre ogni libro ha il suo momento. Ricordo di averlo comprato dopo avere visto le prime scene del film una sera in tv. Mi ci ero imbattuta casualmente, ma conoscevo il titolo del libro. Così, dopo aver spento (ovviamente) il televisore mi ero annotata di comprarlo. La quarta di copertina, soprattutto quando riporta pareri esterni, è sempre la cosa più fuorviante. Anche perché non sarebbe possibile trovarci un’indicazione quale: “decisamente il più noioso dell’ultimo secolo”, quand’anche fosse l’unica cosa sensata da riportare. Ma ammetto che un po’ per fama, un po’ per le impressioni, ci sono cascata pure io. Un serial killer in pieno settecento, wow! Già, wow .. peccato che Suskind si sia interessato a tutto tranne che a quello. Aveva tra le mani un ottimo personaggio, aveva creato dal nulla un capolavoro… la cosa più difficile!

Ed è riuscito a distruggerlo dopo 300 pagine di pura agonia. Da non credere.

Vediamo di andare con ordine.

Jean Baptiste Grenouille nasce e sopravvive per fare un dispetto alla vita e, dopo poche ore, miete la sua prima vittima, anche se involontariamente: sua madre, accusata di tentato infanticidio e abbandono viene giustiziata. Senza un motivo preciso questo bambino porta su di sé il marchio della crudeltà e della cattiveria fin da subito. Rifiutato da molte balie e perfino dai religiosi di Parigi, viene affidato alle cure di una donna che si occupa (dietro pagamento) di bambini abbandonati. Lei, stranamente, non sembra percepire l’inquietudine che il ragazzo emana per il semplice fatto di non avere un odore personale. Il fatto che egli non abbia, come tutti gli uomini, un odore proprio, lo rende sospetto agli occhi degli altri. Ma Jean Baptiste è troppo preso dagli odori del mondo per rendersi conto che solo lui ne è privo. Il ragazzo non solo percepisce gli odori ed i profumi che tutti percepiscono, ma sente molto distintamente una categoria inaccessibile ai più: l’odore del vetro, del legno, di un gattino appena nato, del denaro, di ogni singolo animale, dei sassi, di qualsiasi cosa semplicemente esista. Allontanato dalla casa famiglia, trova lavoro presso una conceria. È questo il periodo del suo primo omicidio. Guidato attraverso Parigi da un profumo, che lui definisce “il profumo dell’amore”, arriva alla finestra di una fanciulla. Lei è di spalle alle prese con della frutta, e non sia accorge di nulla. Ma Jean Baptiste si avvicina troppo, annusandola con voluttà e lei percepisce una presenza alle sue spalle. Il tempo di girarsi ed il ragazzo la strangola. Neanche il tempo di un ulteriore respiro. E come se non bastasse la spoglia, per annusare tutto il suo profumo, immagazzinarlo nella sua mente e non dimenticarlo più. Già, perché se lo dimenticasse, sarebbe irrimediabilmente perduto per sempre. La sua vita riprende esattamente come se nulla fosse; lavora sodo, senza lamentarsi di nulla, senza essere pagato; il mestiere è pesante ma Jean Baptiste ha una cosa sola in mente: riuscire a lavorare alla profumeria Baldini. La rinomata profumeria di Baldini è una delle più vecchie e prestigiose di tutta Parigi e lì, Jean Baptiste, intende imparare l’arte del conservare gli odori. Con un escamotage che ha dell’incredibile, il ragazzo guadagna la fiducia del profumiere, che fino a cinque minuti prima dell’incontro aveva deciso di chiudere bottega, vendere e tornarsene in Italia, a Messina. Invece compra (letteralmente) l’apprendista dal mastro della conceria e si prepara a fare faville. La profumeria rinasce, cresce e si rinnova con le squisite essenze create di nascosto da Jean Baptiste, che mille ne crea e altre diecimila ne immagina e pensa. Nessuno sa che non è il buon vecchio Baldini a creare le fragranze, ma il ragazzo non vuole fama né successo, né tantomeno soldi, vuole solo che gli venga insegnata l’arte con la quale racchiudere tutti gli odori del mondo in altrettante gocce di essenza. Ma quando si rende conto che il maestro profumiere non è in grado di insegnargli questo, Jean Baptiste si ammala gravemente. Si riprende solo ed esclusivamente quando viene a sapere che a Grasse insegnano altri metodi di estrazione delle essenze. Come arrivarci da uomo libero? Dopo altri tre annidi lavoro e parecchie promesse, finalmente il ragazzo, ormai diciottenne, parte con il suo diploma di garzone nelle mani e qualche soldo. Nel suo lungo viaggio verso Grasse, però, il giovane Grenouille si rende conto che è nauseato dagli odori degli uomini, che, dopo essersi finalmente lasciato Parigi alle spalle, non vuole più sentirne lo sgradevole, inconfondibile essenza. Schiva così ogni presenza umana per giorni, arrivando ad allungare notevolmente il suo viaggio e in qualche modo, portandolo a termine fermandosi su una montagna assolutamente arida ed inospitale per la bellezza di sette anni. Sette anni chiuso in una spelonca dormendo per la maggior parte del tempo, vivendo nelle innumerevoli stanze che la sua mente ha creato. Fino a quando, finalmente, la consapevolezza di non avere un odore lo turba e lo scuote a tal punto da ridestarsi e rimettersi in marcia. Uno straccio d’uomo, un cencio di 25 anni, con la barba fino a terra e i capelli incolti, le unghie sporche e lunghe, un mostro curvo e mezzo nudo si aggira per i campi spaventando chiunque. Per salvare sé stesso Jean Baptiste racconta di essere stato tenuto prigioniero per sette anni, rapito e poi misteriosamente liberato. La sua storia attira l’attenzione di uno pseudo scienziato: il marchese Taillade-Espinasse; quest’uomo aveva una teoria della quale era fermamente convinto e Grenouille sembrava davvero la prova in carne ed ossa della stessa. Secondo il marchese infatti il contatto e la vicinanza con la terra portano l’uomo ad ammalarsi gravemente e quindi a morire. Più ci si allontana dai gas veleniferi emanati dal terreno, più si vivrà. Jean-Baptiste era stato sicuramente stato ridotto così dalla forzata permanenza in una grotta nella roccia nuda, pericolosamente infida. Il ragazzo coglie l’espediente per rimettersi in sesto e crea per l’occasione “un profumo” che gli consenta di odorare come tutti gli uomini. In questo modo egli potrà aggirarsi per Montpellier senza dare nell’occhio. Finito il suo compito … semplicemente sparisce. Arriva finalmente a Grasse dove trova facilmente di nuovo lavoro presso una profumeria, quella della vedova Arnulfi. Ma a grasse, il ragazzo, trova anche un’altra cosa: un profumo, ancora più potente di quello della fanciulla di Parigi, un po’ più acerbo poiché colei al quale appartiene è ancora una bimba. Quel profumo tra due anni esploderà con tutta la sua forza e Grenouille giura a se stesso che in due anni troverà il modo per preservare finalmente quel profumo, stillarlo, estrarlo e creare con quello il suo reale proposito: il profumo dell’Amore. Grasse però, dovrà pagare caramente la follia di quest’uomo, al quale nulla e nessuno può sfuggire.

Jean Baptiste de Grenouille (nella finzione letteraria) ha ucciso 24 ragazze più 2.. e Suskind perde tre quarti di libro a raccontare cose assolutamente … noiose. Sono d’accordo su una cosa: ha saputo creare un personaggio unico ed inquietante, peccato non abbia saputo bene cosa farne. L’inizio del libro è già abbastanza denso, quando Suskind descrive tutti gli odori che si possono percepire per le strade di Parigi. Una lunghissima sequela di effluvi che pare non finire mai. Due pagine e mezza buone, quasi tre, che manco Eco per descrivere il portale del convento ne “Il nome della rosa”. Un’ansia pazzesca. Ora grandissimo merito va al lessico, sicuramente notevole e mai scontato, con una ricerca di parole e sinonimi davvero mastodontica, quasi eroica… però a parer mio non basta. In poco più di 50 pagine si compiono ventitré omicidi e non uno, nemmeno uno, viene descritto. Come se il libro parlasse di tutt’altro, come se gli omicidi fossero marginali. Probabilmente nella mente di Suskind era decisamente così. Forse, pur avendo creato un serial killer, l’autore non ne ha compreso la potenza letteraria, declinando tutta l’attenzione del lettore su altro. In questo libro il lettore si sente un cane randagio, indesiderato peraltro, alle calcagna di Grenouille, così, per tutto il romanzo, senza sosta. Senza che sia chiaro fino in fondo (e nemmeno in fondo) per quale dannato motivo Jean Baptiste sia così cattivo, insensibile, quasi avesse il male geneticamente insediato e quasi avesse nel male la sua unica possibilità di vita. Lo stesso male che inutilmente riversa verso se stesso, in un ultimo estremo atto di egoismo. Vuole essere amato, si, ma di un amore finto, idolatrante, annichilente e totalmente malato.

Un stanza piena di gente

Inizio: 7 agosto 2015

Fine: 20 agosto 2015

"[...] Dovevo combattere? Dargliela vinta? […] Ma vale la pena di vivere inghiottiti dal bidone della spazzatura che la società riserva alle menti disadattate?



Quando ho letto Shantaram ho compreso che tutti (o quasi) abbiamo diritto a
non essere giudicati, ad avere una seconda opportunità e che, spesso, è più importante cosa facciamo per porre rimedio ai nostri errori, che non gli errori stessi che abbiamo commesso. Tuttavia i crimini efferati solitamente non mi lasciano molto spazio di manovra: condanno bruscamente e senza nessuna attenuante. Laddove poi vi sia un chiaro intento di violenza gratuita, di amore per la crudeltà, aggiunto ai futili motivi, alla totale assenza di empatia, pietà, etc… arrivo a formulare pensieri ancora più… rigidi. Per me, certi delinquenti, non dovrebbero nemmeno rivedere la luce del sole, altro che essere reintrodotti in società… Uno stupro (che sia ai danni di una donna o di un uomo –e non apro nemmeno l’argomento bambini…) è decisamente troppo grave per essere anche solo lontanamente compreso, figuriamoci giustificato. È brutale, spietato, violento e devastante. Non riesco a scusare, a capire, a difendere. Non che io non creda a quelli che vengono definiti “malati patologici”, ma credo che poi, come sempre, se ne approfitti anche chi non ha nessuna patologia. Il campo dell’infermità mentale è davvero difficile da delimitare. Spesso ho sentito medici giustificare il presente violento di alcuni pazienti (stupratori) rimandandone le cause a infanzie rubate, a molestie subite, ad abusi. Ok, allora qualcuno può spiegarmi perché un buon 80% (non mi spingo oltre) di abusi è perpetrato sulle donne, sulle ragazze, (sulle bambine perfino!) e poi, invece, sono gli uomini a diventare molestatori/stupratori? Qualcosa non torna in questo meccanismo.

Ad ogni modo, per la prima volta, mi sono trovata davanti ad una storia incredibile nell’accezione buona del termine. Credibilissima ed estremamente inquietante, ansiogena e choccante. E per la prima volta nella mia vita ho davvero inteso cosa significhi “non essere capace di intendere e di volere”. Che poi, nella realtà (lo capirete), chi ha commesso gli stupri era ovviamente capace di intendere e volere, ma non si può condannare William Milligan per questo. La sua condizione lo ha condannato per tutta la vita ad una sofferenza pari a quella che ha inflitto alle sue vittime. Mi rendo conto che sia difficile da capire, detto così, ma leggendo oltre, sono sicura che comprenderete.
Ohio, Stati Uniti. 1977-1978. Le giovani rapite dal campus, stuprate, rapinate e rilasciate sono già salite a tre. Insieme al numero sale anche l’indignazione pubblica e la paura per quello che ormai tutti chiamano lo stupratore del campus. Tra interrogatori incrociati alle vittime e rilevamenti di impronte, nei database della polizia appare un riscontro: William Stanley Milligan, già schedato per altri crimini. Quando due vittime su tre lo riconoscono con certezza, oramai il caso sembra chiuso: il procuratore chiederà il massimo della pena per ogni stupro. Non esiste altra possibilità. A poco serve che al momento dell’arresto Billy sembri totalmente incapace di spiegarsi cosa diavolo stia succedendo e continui a ripetere di non saperne nulla. A nulla serve quella frase lanciata dalla cella “Oh mio Dio, oh no, ancora?!” seguita da un tentativo di suicidio. Come si fa a prestare attenzione a queste cose quando tutte le prove portano a lui? E non solo, anche le vittime lo hanno riconosciuto. Così Billy resta come in trance. E poi di colpo si ridesta, sembra diverso. Alle volte  arrogante e manipolatore, altre sembra collaborare (continuando comunque a negare), altre addirittura sembra un bambino, spaurito e bisognoso di affetto. Un elemento, peraltro, già evidenziato dalle vittime, che descrivono Milligan come avente comportamenti completamente diversi: dal momento del rapimento a quello del rilascio sembrava passare dall’aggressività (marcata da un forte accento iugoslavo) alla confusione, alla dolcezza, ad un affettuosità marcata e poi di nuovo alla stizza…
La prima ad accorgersi di tali sbalzi è il suo avvocato, Judy Stevenson. Lei e il collega Gary Schweickart non credono di poter far passare Milligan per uno con infermità mentale, tuttavia qualcosa nel suo comportamento non torna. Chiedono così la perizia della Dottoressa Dorothy Turner, affermata psichiatra di indubbia reputazione e fama. Quello che si troverà davanti, la segnerà come donna e come psichiatra per il resto della sua vita. William Milligan, che le sta davanti, parla di Billy Milligan in terza persona, come se lo conoscesse di vista e nulla più; all’ovvia domanda “Ma con chi sto parlando, tu chi sei?” la risposta è “Io sono David, Billy sta dormendo”. David ha otto anni, e subentra quando c’è sofferenza; nell’angoscia di trovarsi con quella donna in una stanza chiusa le rivela il segreto di William, che mai avrebbe dovuto rivelare. Loro non sono uno solo (William), sono una famiglia capeggiata da Arthur e Ragen. E loro si arrabbieranno molto quando scopriranno che lui, David, ha rivelato il segreto.
“Arthur dice che sono il guardiano del dolore. Quando qualcuno si fa male, sono io che vengo fuori su posto e lo sento. […] Arthur ci ha spiegato come funziona quando uno di noi deve venir fuori. È un grande fascio di luce bianca. Tutti stanno intorno, guardando o dormendo nei loro letti. E chiunque mette piede sul posto, è fuori nel mondo. Arthur dice che chiunque sta sul posto possiede la coscienza.”
Il giorno successivo, la situazione peggiora quando Dorothy apprende da Christopher, di tredici anni, che David è stato sgridato ed allontanato, Arthur è furibondo e lui non ha nessuna intenzione di peggiorare le cose. Non parlerà. Rivela a Dorothy solo la presenza, tra gli altri, di sua sorella Christene di tre anni. Dopo qualche giorno è la volta di qualcun altro che la Dottoressa Turner ancora non ha visto. Ha imparato a riconoscere i vari ragazzi dalle loro movenze, dallo sguardo, ora sa che non esiste possibilità che William menta, quelle personalità esistono e lui con tutta probabilità non ne è cosciente. Ma questo è nuovo, è Tommy, ha sedici anni. E non è finita.­ Nonostante la promessa fatta a David (di non rivelare ad altri il loro segreto) la Dottoressa Turner cerca di spiegargli che è importante che la signorina Stevenson sappia di tutta questa gente, affinché possa evitare a William (e a tutti gli altri) di andare in prigione. È difficile strappare a David il consenso, terrorizzato com’è dall’ira di Arthur. Così subentra Allen,18 anni, il manipolatore. E poi è il turno di Danny, di 14anni. Per ultimi faranno il loro ingresso Arthur e Ragen, il primo è colui che gestisce tutti quando c’è bisogno di logica e ragione, il secondo interviene in caso di pericolo e solo ed esclusivamente per difesa, mai per attacco. Arthur è inglese, ha ventidue anni, conservatore ed ateo, autodidatta di fisica e chimica, studia medicina. Legge e scrive fluentemente l’arabo. Ragen, ventitré anni, è il guardiano dell’odio. È iugoslavo, comunista ed esperto di karate, scrive e parla serbo-croato ed è l’unico autorizzato a possedere e utilizzare armi. Arthur decide infine di collaborare, a patto che si chieda il permesso e lo si ottenga da ognuno di loro. L’osso più duro è Ragen, che teme di essere accusato anche di altri crimini, che e crede di aver commesso (come alcune rapine). Alla fine, dopo non poche garanzie e molte ore passando da uno all’altro, tutti accettano, Ragen compreso. Oltre ai suoi avvocati, per la prima volta anche l’accusa ed il procuratore vengono informati dei fatti ed invitati a vedere con i propri occhi questo stupefacente caso. Si convinceranno da soli di ciò che vedono. In sala sono presenti anche alcuni medici che possano attestare la gravità della personalità multipla di William. A tutti è fatta richiesta di assoluto silenzio, si presenteranno quando verrà chiesto loro e non dovranno intervenire in alcun modo. Finalmente Dorothy Turner può presentare tutte le personalità (o quasi) e mostrare come sia assolutamente impossibile fingere. Riesce perfino ad ottenere da Arthur il permesso di parlare con il vero William. Ognuno di loro ha una perfetta percezione di sé, della propria età ed aspetto fisico (diverso per ognuno) [nota personale: non so se esistano dei filmati visionabili dal pubblico… ma deve essere stato davvero inquietante]. Appare chiaro che alcuni di loro non sanno dell’esistenza degli altri, non di tutti quantomeno ed è Arthur che si sobbarca il compito quotidianamente di mettere ordine. Lo fa da sempre, da quando tiene Billy addormentato (da quando ha tentato il suicidio a 16 anni); è lui a decidere chi può uscire e chi no. È lui che ha scoperto tutti gli altri e per primo è riuscito a rimanere sul posto quando qualcun altro cercava di rubare il tempo. Riesce a percepire i pensieri di quasi tutti ed è sempre con lui che bisogna ragionare per arrivare a qualsiasi compromesso. È lui, ancora una volta, che mette ordine negli avvenimenti e nei vuoti per capire chi ha commesso i crimini. Ragen voleva rapinare le banche, Allen o Tommy subentravano dopo che Christene aveva calmato Ragen… così, dopo, Ragen si ritrovava stordito dalle anfetamine e dalla vodka, con i soldi e gli assegni incassati. Pensava di avere rapinato le banche. Invece, nel mezzo, era successo tutt’altro. Su una cosa erano tutti d’accordo: nessuno ammetteva gli stupri. Ma allora chi? Esisteva una ulteriore personalità, Adalana, diciannove anni, lesbica, timida ed introversa, bisognosa di affetto. È lei, la stupratrice; è lei che ha messo nei casini tutti quanti, uscendo sul posto nell’esatto momento in cui avrebbe potuto avere un po’ d’affetto…
Nei mesi che precedono il processo, Billy viene mandato al Harding Hospital la mattina del 16 marzo 1978, con tre giorni di anticipo, sotto il controllo e le cure del dottor Harding. Billy è tenuto addormentato da Arthur perché non appena “si sveglia”, non capendo, cerca di uccidersi. Quindi sono Allen e Tommy a girovagare per l’ospedale per la maggiore. Se si spaventano subentra Danny, se invece si fanno male, subentra David. Mentre lui è in attesa di giudizio, si cerca di ricostruire la sua vita. Il dottor Harding fa risalire la dissociazione multipla all’età di otto anni, quando il patrigno lo molestò per la prima volta (di una lunga serie, purtroppo). Molestare è un eufemismo: Chalmer Milligan sodomizzò il bambino per ore costringendolo ad ogni tipo di rapporto, seviziandolo e minacciando di sotterrarlo vivo. Fu allora, che David venne a prendersi il dolore per la prima volta, domandandosi perché fosse lì. Questo infatti è uno degli aspetti più traumatici: ognuno di loro (Arthur e Ragen a parte) ha coscienza di ciò che fa fino a quando non lascia il posto. Quando riprende il posto non sa cosa sia accaduto nel frattempo. Non capisce, ricorda l’ultima cosa che ha fatto e poi… buio. Spesso possono essere passati giorni, settimane o mesi. Questo è il senso della frase pronunciata da Billy (realmente da William) al suo risveglio in prigione. Ci si era già trovato altre volte, senza capire, SENZA POTER CAPIRE. Sei anni di vuoto. Sfido chiunque a non avere voglia di uccidersi seduta stante. Ed a tutela di tutti, Arthur ha deciso di non svegliarlo più. Il rischio che si uccida è troppo alto. Morirebbero tutti. Non morirebbe William, no no, morirebbero tutti loro: William, Arthur, Ragen, Allen, Tommy, Danny, David, Christopher, Chritìstene  e Adalana.
Come Allen spiegò al Dottor Harding:
“Non siamo personalità, siamo persone"
“Perché fai questa distinzione?”
“Quando le chiama personalità, è come se pensasse che non sono reali”.

Come ci si aspettava, il 4 dicembre 1978, William Milligan viene dichiarato incapace di intende e di volere, affetto da infermità mentale. Viene disposto che venga portato all’Athens Mental Health Center da uomo libero, non condannato, affidato alle cure del Dottor David Caul, perché se è pur vero che non è stato condannato, ha bisogno di cure, di vere cure. Prima del processo il Dottor Harding aveva riscontrato un parziale successo nel tentativo di fondere Billy con tutte le sue personalità. Loro erano disposte a sacrificarsi per il bene comune: permettere a Billy di vivere una vita normale da buon cittadino. C’era stato un precedente, con il caso di Sybil, tuttavia alla psichiatra Cornelia Wilbur erano occorsi quasi dieci anni di terapia per fondere le dieci personalità in un’unica Sybil. Il Dottor Harding aveva avuto troppo poco tempo e troppe personalità radicate con le quali lavorare. Così lo stress del processo e la precaria stabilità della fusione, avevano portato William a dissociarsi di nuovo ed a peggiorare la situazione erano emersi gli indesiderabili. Quattordici, ALTRE QUATTORDICI personalità che Arthur aveva bandito per anni in quanto violente, asociali, inadatte. Rimaste lì, latenti, avevano preso nuovamente il controllo senza che Arthur se ne accorgesse. Avevano ricominciato a rubare il tempo nei periodi di confusione che nemmeno il razionalissimo inglese riesce a gestire. Ed ecco sfilare davanti a noi ed ad un incredulo, ma ben preparato Dottor Caul, Philip e Kevin, i due delinquenti incalliti dediti allo spaccio. Il primo, 20, newyorkese con un forte accento di Brooklyn, usa un linguaggio volgare; Kevin, stessa età, organizza rapine (entrambi hanno rubato tempo tra Ragen e Adalana, durante i sequestri). Walter, 22 anni, l’australiano, il ricognitore. April, la prostituta di 19 annidi Boston, si divide le faccende domestiche con Adalana e cerca costantemente di istigare Ragen. Samuel, 18 anni, l’ebreo, l’unico credente. Mark, 16 anni, definito lo zombie. Steve e Lee che si contendono il titolo del più divertente, il primo, 21 anni è definito un impostore, il secondo, di 20 anni il commediante. E poi ancora Martin, di 19 anni, definito lo snob. Timothy, 15 anni, che ha resistito lavorando da un fiorista fino a quando non ha subito avances sessuali dal proprietario, da allora si è chiuso nel suo mondo. Jason, tredici anni di furia, rabbia e scoppi d’ira, Robert, 17 anni, il sognatore, ed infine il piccolo Shawn, di soli 4 anni, completamente sordo (prendeva il posto perché Tommy e Allen non potessero sentire le urla di Chalmer Milligan, prima che arrivasse David a sentire il dolore). Come se questo sterminato e inquietante elenco non bastasse, esiste un’ulteriore personalità, quella che si definisce Il Maestro, la ventitreesima. Il Maestro si definisce Billy tutto in un pezzo, a differenza di William, che è completamente scisso dagli altri e viene identificato come Billy-U (Billy Unfused). Lui è l’unico in grado di spiegare tutto, al Dottor Caul, dal principio alla fine; da che ha memoria del piccolo Billy fino al giorno stesso in cui parla col Dottore, spiegando con dovizia chi, di volta in volta, sia uscito sul posto. Si arriva a questo dopo 200 pagine buone e qui davvero ci si comincia a rendere conto di quello che abbia significato essere (o non essere) William Stanley Milligan. Solo con il continuo alternarsi dei suoi alter ego gli è stata garantita la sopravvivenza negli anni, a prezzi estremamente alti si, ma almeno è sopravvissuto.

So che è decisamente brutto da dire, ma lungo questo viaggio io mi sono completamente dimenticata le vittime… è sbagliato, poverine, so che è sbagliato. Loro dovrebbero essere sempre il primo pensiero, ma è difficile per me pensare a Billy come a un criminale. Io non sono riuscita a provare qualcosa di diverso da una grandissima pena per questo ragazzo. E la domanda che più spesso mi sono fatta scorrendo queste 540 pagine è stata “Dio mio ma come ha fatto?”… a non impazzire, a non morire, a non uccidersi, a non essere ucciso, ma soprattutto: come ha fatto a vivere così. Il pensiero che invece ha caratterizzato le ultime100è stato: “Perché la gente non ha compreso? Perché non hanno capito?”.

Lo smarrimento, il dolore, la confusione .. è stata davvero dura emotivamente leggere questo libro. Tuttavia credo che sia giusto sapere che possono esistere persone come Billy, che la sua storia possa insegnare molto, a molti. Sono “felice” di averlo conosciuto. Tutto sommato, se ci pensate bene, è davvero stata una persona straordinaria.