Fine: 8 giugno 2015
Non voglio fare una lunga premessa, ma due parole le voglio dire prima di recensire. Io, che nella vita mi sono trovata a leggere e studiare le peggiori barbarie del mondo (dalle dittature di tutta l’America Latina, alla guerra ed ai campi di concentramento in Sud Africa, al colonialismo sfrenato e feroce di tutta l’Africa Sub Sahariana, arrivando fino alla lontanissima Australia, segnata da crudeltà e barbarie inaudite) mai e poi mai mi ero accostata ad un romanzo sulla Seconda Guerra Mondiale. Ad essere onesti nemmeno sulla prima. Fin dalle scuole medie le poche immagini che ho visto sulla carta mi hanno impressionato al punto tale da crearmi un blocco emotivo. Alle superiori ho supplicato il mio prof di Storia di esonerami dalle visioni video e quando mi ha visto in lacrime davanti al primo filmato, non è andato oltre nel tentativo. Nemmeno leggerne, non posso nemmeno leggerne. Il solo pensiero di quella immane tragedia mi blocca. Io non tollero la barbarie e la crudeltà, non tollero le ingiustizie, le cattiverie, la violenza. Non posso vedere un filmato sui campi di concentramento senza sentirmi mancare (letteralmente) dopo pochi secondi. La mia mente non riesce a contenere tutto questo, non ce la faccio proprio a gestire l’emotività. Comincio a piangere e a stare male.
“Non sai stare al mondo” direte voi,
“vero, forse avete ragione”.
Resta di fatto che in questo momento
di profonda crisi e tristezza personale ho deciso di leggere questo libro. Non sapevo
cosa aspettarmi ed avevo timore di stare male. Quel male che ti bastona ma non
ti finisce del tutto, perché sai che non puoi farci niente, la storia è storia,
ma non l'accetti. Invece ho scoperto che Irene, non solo non inscena scene troppo crudeli, ma
racconta di un’epoca più che della guerra. Perché come dice lei stessa nei suoi
appunti “della guerra ci si dimentica”. Povera Irene, quanto ha ragione!
La
storia dovrebbe insegnare e lo fa, ma noi siamo tutti sordi e non impariamo mai.
Ed ora, che la generazione di nonni e anziani che la guerra l’ha vista e l’ha
vissuta sta scomparendo… io ho più paura che mai. Perché nessuno di noi sa cosa
significhi sentire un allarme aereo, una bomba che esplode, non sa cosa sia la
fame, il freddo, la paura che non ti lascia mai… poveri noi. Che tutti le anime
vittime di guerra ci proteggano.
Parigi. 10 Giugno 1941. Oramai non
c’è più molto tempo, i tedeschi stanno per invadere la capitale francese ed i
bombardamenti potrebbero cominciare da un momento all’altro. L’allarme è dato e
bisogna fuggire. Chi ha sentito odore di guerra se n’è andato da tempo, qualcun
altro sta preparando frugali bagagli, qualcuno, impavido non partirà mai.
Charlotte Pericand, moglie di Adrien Pericand, sta ultimando con ritardo le
ultime cose. Lei, il suocero ed i bimbi più piccoli (Emmanuel, Jacqueline e
Bernard, rispettivamente 1, 8 e 9 anni) si stanno dirigendo in Borgogna, a casa
della madre di Charlotte. Il diciottenne Hubert li seguirà in bicicletta,
mentre il figlio maggiore, Padre Philippe, si tratterrà per accompagnare
personalmente i poveri infelici
dell’Opera dei Piccoli Residenti del XVI in un luogo prescelto a circa
cinquanta chilometri dalla sua parrocchia di montagna. Anche Adrien si
tratterrà a Parigi. Lo scrittore Gabriel Corte non è felicissimo di non poter
accendere le luci in piena notte per scrivere, questa storia stava diventando
un incubo e l’idea, il suggerimento di Jules Blanc (membro della presidenza del
Consiglio) di lasciare Parigi è anche peggio; pe fortuna Florance ha pensato a
tutto ed ha preparato una valigia con le cose necessarie emesso anche i suoi
preziosi manoscritti nella cappelliera. I coniugi Michaud, recatisi in banca di
lunedì avevano scoperto che il direttore Corbin intendeva trasferire tutto
nella filiale di Tours ed aveva deciso di caricare tutti i documenti sulla sua
macchina e viaggiare insieme ai Michaud. Quanto meno non avrebbero dovuto
separarsi, loro, che come altri migliaia di parigini avevano il figlio,
Jean-Marie al fronte. All’ultimo momento però sono rimasti senza passaggio,
scalzati dall’amante di Corbin. Anche Charles Langelet è stato abbandonato, ma
dai suoi domestici (che sono fuggiti); lui sta preparando le valige con lo
stretto necessario ed anche se dice a tutti di non temere né guerra né morte,
si prefigge di raggiungere il confine spagnolo, valicarlo, arrivare a Lisbona ed imbarcarsi. Le stazioni sono
state sprangate, i taxi sono rimasti senza benzina, chi ha un mezzo lo sta
usando per scappare (forse caricando amici e parenti), tutti gli altri,
disperati, stanno andando a piedi, lasciandosi Parigi alle spalle. Comincia
così l’esodo. Chi va verso Tours, chi verso Orléans, chi cerca di spingersi il
più lontano possibile; i bombardamenti cominciano e ben presto Padre Philippe
deve scendere dal camion insieme agli orfanelli per lasciarlo ai militari che
devono trasportare i feriti. Tra i feriti c’è anche Jean-Marie, che per un
soffio non incrocia Jeanne e Maurice, i suoi genitori. È ferito, in modo grave
e viene lasciato in una casa alle cure di alcune donne. La situazione diventa
sempre più critica: le cittadine di provincia vengono prese d’assalto dai
profughi che hanno fame; non c’è più nulla per nessuno. La situazione con il
passare delle ore può solo peggiorare, la guerra non guarda in faccia nessuno,
anche se, chi è disposto a pagare, ha più possibilità di sfamarsi e riposare
comodamente. Le morte però è la morte e contro quella a nulla servono i soldi.
Lucile Angellier vive con la suocera.
Sono ricchi, gli Angellier, hanno una tenuta a Bussy da fare invidia, ma la
tragedia si è abbattuta sulla famiglia da quando il figlio Gaston è partito per
la guerra e si ignora dove sia. La nuora, Lucile, è sempre troppo o troppo poco
affranta per la sorte del marito, così la vecchia Angellier non fa che sfiancarla
con continui rimproveri. Inutili ed ingiusti, tanto più che quel prode figlio
ha tradito la moglie svariate volte e da molto tempo intrattiene una dispendiosa
relazione con un’amante… interrotta solo dalla guerra. Lo sconcerto raggiunge l’apice
quando viene reso noto che un tedesco abiterà nella casa di Gaston: già, l’invasore,
il nemico, il tedesco, l’usurpatore, entrerà in quella casa e ne occuperà le
stanze, ne godrà a fondo come fosse sua. Perché ora che i tedeschi hanno
occupato la zona (e il resto di Francia) è evidente che necessitano e
pretendono case, letti e tavoli imbanditi. Nonostante non si possa dir di no,
la signora Angellier è pronta a tutto pur di dimostrarsi altera, fiera,
contrariata e scandalizzata per quella disgustosa invasione. Bruno von Falk
prende così posto a casa Angellier, più alto è il grado, migliore sarà l’alloggio.
A lui quindi tocca la casa di Gaston e la sua famiglia. Egli, come molti altri
tedeschi, è beneducato e ben disposto ad una pacifica convivenza: non ci si può
dimenticare la guerra in corso, ma si può convivere cercando di non darsi
troppo fastidio. Molte donne in paese, prive dei propri mariti e senza giovani
a disposizione, intrattengono relazioni più o meno amichevoli con i tedeschi. Certo
non subito, ma con il tempo ci si abitua a quei ragazzi biondi, simpatici e
stranieri. Loro che si sforzano di imparare qualche parola di francese, qualche
complimento, che regalano ancora fiori e sfiorano mani. Anche Lucile, suo
malgrado, si sente attratta da Bruno, che insistentemente (ma dignitosamente)
cerca di risvegliare il suo interesse, pur avendo lui una moglie che lo attende
a Berlino e lei un marito dall’altra parte della barricata. Un sentimento
nascosto ma non troppo, contraddittorio, dolcissimo e commovente segna tutta la
seconda meravigliosa parte di questa fantastica opera incompiuta.
Non c’è molto altro da dire. Irene aveva
una grazia nello scrivere davvero eccellente, sarebbe stata un’opera
meravigliosa, colossale, un monumento ad un’epoca. Ma non ha potuto terminarla.
E il mio pensiero va a quanti di loro avevano un dono, un talento, che non
hanno potuto offrire al mondo. Quanti di loro sarebbero stati Premi Nobel o scienziati
famosissimi, geni, musicisti, scrittori e artisti. Non che importi, perché per
me erano persone che meritavano di vivere la loro vita, a prescindere da quello
che avrebbero fatto. Tuttavia, nella mia testa, mi ripeto: quanta umanità gettata
via!
No non è vero che non sai stare al mondo! Forse per qualcuno (la maggioranza credo) essere sensibili e piangere può essere un segno di debolezza che non va mostrato, è pericoloso mostrarsi deboli in questa società, saresti considerato un sottomesso. Ma non è così. Un film suglio orrori della guerra può ferire profondamente una persona nonostante non abbia vissuto direttamente in prima persona gli avvenimenti, ma anche nella nostra realtà odierna ci sono accadimenti che dovrebbero farci piangere o perlomeno indignarci e passiamo oltre senza troppo pensarci. Le tragedie accadono quotidianamente nel corso della storia, prendiamo per esempio la tragedia dei migranti, come vediamo quella povera gente? come un pericolo? come stranieri (forse alieni) che arrivano a privarci del nostro quieto vivere? Guardiamo la propaganda politica che usa senza mezzi termini queste tragedie, ci inducono a pensare che sono cavoli loro se affrontano il mare in quelle condizioni, noi non siamo mai colpevoli di questo nonostante abbiamo sfruttato, e continuiamo a farlo, i loro territori, sottraendo, d’accordo con i capi di quei governi, tutti i loro beni che ci permettono di vivere la nostra bella vita in tranquillità. Scusa la divagazione che probabilmente non c’entra nulla con il libro ed è chiaro che non possiamo farci carico del male del mondo singolarmente, ma perlomeno prenderne atto è nostro dovere oltre che un segno di sensibilità che a sua volta è sinonimo di intelligenza. Chi non lo è o non vuole esserlo, spegne il cervello e si lascia giudare come pecore nel gregge da uno più furbo di lui, che nella quasi totalità dei casi lo fa esclusivamente per proprio tornaconto personale (la storia è li a dimostrarlo). Infine cerchiamo di avere compassione per quelle persone che proprio non ce la fanno a vedere oltre il proprio orticello perchè in fondo le persone sensibili sono privilegiate perchè usano la propria testa per ragionare e anche se questo comporta una grande fatica ci rende liberi. Ciao.
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